«Vuoi un permesso di soggiorno? Dichiarati gay»: il trucco di alcuni avvocati che seguono le pratiche per i migranti che arrivano in Italia. Cosa dice la normativa e le risposte degli addetti ai lavori. Come ottenere il permesso di soggiorno quando le possibilità si contano sulle dita di una mano? Dichiarandosi omosessuale. L’escamotage deve essere prassi piuttosto comune se la risposta che ci sentiamo ripetere dai migranti incontrati è quasi sempre la stessa: «Il mio avvocato mi ha detto che se voglio il permesso di soggiorno, devo prendere la tessera dell’Arcigay». Quando poi ai nostri interlocutori chiediamo se sono gay, anche qui la risposta si ripete: «No, sono eterosessuale». Un ragazzo del Senegal ci racconta addirittura di avere moglie e figli e di sperare che un domani possano raggiungerlo in Italia.
Il motivo dell’espediente è semplice: ottenere il permesso di soggiorno. Un documento che per alcuni, in Italia da quasi dieci anni, sembra ormai un miraggio. I casi in oggetto infatti fanno parte di quel 60/70% di migranti che ogni anno vengono respinti dalle Commissioni Territoriali del Ministero dell’Interno perché «migranti economici». Una volta ricevuto il diniego però si può fare ricorso grazie al supporto di un avvocato messo a disposizione dallo Stato nella forma del gratuito patrocinio.
Probabilmente qui ci troviamo di fronte alle situazioni più «difficili», quelle dove in assenza di elementi biografici o geopolitici tali da giustificare quel «timore fondato di persecuzione« che in base alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 è condizione necessaria alla protezione, non resta che «giocare la carta gay». In base ai protocolli collegati alla Convenzione sui Rifugiati e per l’Italia al decreto legislativo n.251, 2017, lo status di rifugiato non spetta solo a chi scappa da guerre e persecuzioni politiche ma anche a chi si trovi in pericolo di vita a causa del proprio orientamento sessuale. Solo in Africa ci sono almeno 33 Stati dove l’omosessualità è reato e in 4 di questi (Mauritania, Sudan, Nigeria e Somalia) è prevista la pena di morte.
Proprio per i migranti Lgbt, ogni due settimane l’Arcigay di Roma organizza degli incontri che a quanto si legge sul sito sembrerebbero gruppi di ascolto finalizzati a facilitare i nuovi arrivati nel loro percorso d’ integrazione. In realtà è proprio uno dei coordinatori a spiegarci che la loro vera funzione è quella di preparare i ragazzi alle udienze nei tribunali. «Nel 99,9 % dei casi, i migranti che vengono da noi non sono gay, sono qui solo perché hanno bisogno dei documenti. Per ottenerli però devono risultare convincenti di fronte ai giudici e per chi è eterosessuale e proviene da Paesi dove i gay non sono accettati, non è certo facile. Noi proviamo ad aiutarli a combattere la loro omofobia e a sentirsi a loro agio nei “panni gay”».
A quanto pare non siamo stati gli unici a cadere nel malinteso. Star, 27 anni, originario dell’Iraq, è gay e rientra in quel 7% di migranti che nel 2018 ottengono lo status di rifugiato al primo colpo. Alle spalle ha diverse violenze, molte di queste subite anche in famiglia dove la scoperta dell’esistenza di un fidanzato arriva come un macigno che romperà per sempre legami di sangue scatenando aggressioni violente seguite da lunghi ricoveri in ospedale.
Quando arriva in Italia, gli operatori del centro di accoglienza gli consigliano di frequentare l’Arcigay; un modo per non sentirsi solo e trovare altre persone come lui. Purtroppo però ci mette poco ad accorgersi che di gay non c’è quasi nessuno e dopo qualche tentativo smette di frequentare. «Ho incontrato ragazzi che pensavano fossi malato, che andavano agli incontri solo per capire come ottenere i documenti» racconta.
Del resto l’omosessualità è una delle caratteristiche più difficili da verificare e la frequentazione dell’Arcigay e la tessera possono essere elementi sufficienti a convincere il giudice che il migrante che dichiara di essere perseguitato a causa del proprio orientamento è effettivamente gay.
La materia è talmente delicata che con una sentenza del 25 gennaio 2018 la Corte di Giustizia Europea ha vietato i test psicologici sostenendo che sottoporre il richiedente asilo ad accertamenti che ne verifichino l’orientamento sessuale rappresenta «una grave ingerenza nella vita privata». Non solo, secondo l’Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) nel caso di omosessualità, l’unica evidenza di cui si può disporre è la dichiarazione del migrante stesso.
E dunque, così come può essere talvolta difficile per il migrante dimostrare il proprio orientamento sessuale davanti a una Commissione Territoriale, per il giudice che si trovi a valutare il caso in sede di ricorso, è praticamente impossibile verificare che non lo sia. Proprio per questo il no della Commissione Territoriale, quando il caso arriva in Tribunale, spesso diventa un sì. «Di fronte a dei dubbi - spiega Silvia Albano, giudice civile presso il Tribunale di Roma - dobbiamo comunque seguire quella regola di giudizio in base alla quale è preferibile accogliere una persona che magari non ha diritto piuttosto che respingere un migrante che una volta nel proprio paese rischia la vita».
Gli studi legali che seguono i casi dei migranti sembrano saperlo bene. Un avvocato ci racconta di aver seguito oltre 500 casi e di non aver mai incontrato qualcuno che fosse un vero rifugiato. «Quelli che arrivano nella maggior parte dei casi sono migranti economici. Spesso le loro storie sono tutte uguali, lo stesso copione, per questo io dico subito di non raccontarmi bugie perché altrimenti non li posso aiutare. A quel punto lavoriamo sui dettagli, si cerca di mettere in luce quegli aspetti che possono suggerire uno stato di reale pericolo e in alcuni casi, quando il migrante proviene da un Paese dove l’omosessualità è illegale, si può provare a percorrere questa strada come ho fatto recentemente con un ragazzo del Gambia. L’ho mandato alle riunioni dell’Arcigay ed è andata bene». Il giudice infatti gli ha dato la protezione sussidiaria.
Per gli avvocati che lavorano nella forma del gratuito patrocinio, la parcella si aggira in media attorno ai 1000 euro ma solo nella Capitale ci sono studi che seguono anche centinaia di casi. Alla richiesta di delucidazioni in merito l’Arcigay non ha voluto rilasciare nessuna dichiarazione. Quando però ci siamo recati allo sportello, uno dei responsabili ci ha spiegato che «la tessera dell’Arcigay non certifica che una persona è Lgbt e che se i Tribunali dovessero invece considerarla come “prova” è un problema dei giudici».
.......................