Aveva ragione Giulio Andreotti quando sosteneva che in politica la riconoscenza è «il sentimento della vigilia». Tutti vicini al capo, disponibili ad aiutarlo, a sostenerlo, a rincuorarlo se serve. Ma soltanto fino al raggiungimento dell'obiettivo che, di solito, è l'incarico tanto desiderato. A quel punto il «leader» diventa quasi un estraneo e, spesso, una scomoda presenza da ostacolare in nome di una libertà di azione e di pensiero improvvisamente ritrovata. Succede nel M55. Ha portato nelle istituzioni un popolo eterogeneo e nel corso del tempo ha cambiato i suoi modi di gestione (e il suo statuto) per renderne più semplice la guida. È così che Luigi Di Maio è diventato «capo politico», dopo essersi ritagliato un ruolo particolare da vicepresidente della Camera. Piaccia o no, negli ultimi anni si è caricato il movimento sulle spalle.
Si può pensare che l'abbia fatto bene o male ma è evidente che tanti suoi ex fedelissimi ora gli facciano la guerra, tanto da far somigliare il MoVimento al Pd, in cui il «fuoco amico» è una pratica consolidata.
Innanzitutto c'è la pattuglia degli ex ministri: zitti fin quando hanno mantenuto la poltrona, insofferenti e lamentosi quando l'hanno persa. Barbara Lezzi, Danilo Toninelli, Giulia Grillo sono stati i primi a voltare le spalle a Di Maio. Lo criticano ogni giorno, spesso con giudizi che tradiscono un desiderio di rivincita. Tanto, penseranno, ormai siamo al secondo mandato, possiamo permettercelo. C'è Paola Taverna, vicepresidente del Senato, che dissemina lamentele e dubbi senza mai uscire allo scoperto e dare un contributo per risolvere le cose. C'è Emanuele Dessì, anche lui eletto a Palazzo Madama, che da giorni usa toni ben oltre le righe. Un caso a parte è il presidente della Camera Roberto Fico che era critico verso la «curva» presa dal MoVimento già quando non sedeva sullo scranno più alto di Montecitorio e ora continua a picconare. In ogni caso, prima di criticare, dovrebbero riconoscere che Di Maio, come si dice, ci ha sempre messo la faccia. Sulle sconfitte elettorali, sulle operazioni politiche complicate, sui compromessi che non sono proprio il pane dei 5 Stelle. Ha difeso perfino la sindaca di Roma, Virginia Raggi, quando tutti i suoi colleghi la trattavano come un «caso umano». Non solo. Ha tenuto insieme un partito con mille spinte diverse, in cui ognuno (giustamente) vuole dire la sua e lo fa, di solito, senza complimenti. È proprio questo lavoro instancabile per «far quadrare i conti» che ha reso possibile l'impegno nelle istituzioni per molti di loro. Dovrebbero riconoscergli almeno questo. Invece sono diventati tutti statisti, esperti di amministrazione e pieni di idee per rilanciare un MoVimento che, sostengono, ha perso collegialità (oltre che voti). Peccato che prima, quando erano ancora alla ricerca del secondo mandato o di un posto al governo, non sentissero la necessità di invertire la rotta.
Articolo di Alberto Di Majo per IlTempo.it