Da carneade a uomo da 209 miliardi, parabola di un premier abile nella tattica che ha dato il benservito a Salvini e Di Maio. Ora viene il difficile: avere polso e visione, a partire da Mes e riforme. Chi non ricorda il debutto da perfetto prestanome, o meglio presta-premier, di Giuseppe Conte? Era il 7 giugno 2018, discorso d’insediamento del primo governo populista a Montecitorio, l’allora sconosciuto ai più Avvocato del popolo a un tratto si rivolge a Luigi Di Maio, seduto alla sua destra, chiedendo candidamente “Questo lo posso dire?”, incassando una risposta secca e inequivocabile: “No”. Una scena rivelatrice dei rapporti di forza con i due vicepremier, quello grillino e il leghista Salvini, veri deus ex machina dell’esecutivo gialloverde. Sono passati poco più di due anni, tutto è cambiato, la maggioranza di governo, il governo stesso, ma lui, Conte, non solo è ancora lì ma ecco che lo si vede tornare in Italia da un estenuante negoziato durato 4 giorni con i colleghi europei con ben 209 miliardi nel portafogli. In 24 mesi il carneade si riscatta e si prende il suo ruolo, una volta octroyé, ora invece conquistato.
La verità è che il premier, proprio per il modo in cui è stato designato a palazzo Chigi, in questi due anni è stato ampiamente sottovalutato, uno degli errori che qualunque politico - e qualunque cronista - farebbe bene a non commettere. Lo sa bene Matteo Salvini, che l’estate scorsa in preda all’euforia post-elettorale delle Europee - con la Lega al 34% - tentò il colpo grosso puntando allo scalpo del giurista pugliese, fra Dj set al Papeete e richieste di “pieni poteri” a Sabaudia. Risultato? In un mese la Lega fuori dal governo, ricacciata all’opposizione, e il buon Giuseppe ancora al suo posto, a guidare il Conte 2, passando con grande nonchalance dalla politica dei porti chiusi alla rivendicazione della sua formazione da cattolico democratico, accreditandosi come figlio legittimo di una delle aree culturali da cui nacque nel 2007 il Partito Democratico, guarda caso nuovo partner di maggioranza. E dopo Salvini, non c’è dubbio, Conte ha poi agevolato un altro declino, quello dell’altro dioscuro gialloverde. Con le dimissioni da capo politico M5s di Luigi Di Maio, Conte è infatti rapidamente diventato punto di riferimento per un Movimento senza più una bussola politica e in preda a una lotta senza quartiere fra gruppuscoli e fazioni in vista del redde rationem dei prossimi Stati generali.
In questo c’è da riconoscere una certa abilità tattica del premier, che ha saputo scegliere i suoi due numi tutelari, Beppe Grillo e Nicola Zingaretti, su cui poggiare la sua leadership extraparlamentare (guarda caso extraparlamentari anche loro due). C’è da riconoscere la capacità di aver giocato bene l’emergenza Covid, che al di là dell’immane tragedia ha fatto di lui un Presidente del Consiglio popolare fra gli italiani. C’è da sottolineare l’intelligenza nel trovare le alleanze giuste in Europa, scommettendo su una Merkel che fino a qualche mese fa, in epoca pre-Covid, si è sempre dimostrata più rigorista di qualsiasi Rutte. E poi c’è anche l’elemento fortuna, per carità: la concatenazione degli eventi dimostra che a Conte il famoso stellone italico ha arriso e non poco.
Detto questo, però per Conte adesso viene il bello. Anzi, il difficile: avere polso e visione. Tornato in patria dopo le 92 ore di negoziato, si trova comunque a gestire una maggioranza che è sempre traballante nei numeri e sfilacciata nelle proposte. A cominciare dal tormentone dei tormentoni: il Mes. Il premier sa bene che i soldi del Recovery Fund nella migliore delle ipotesi arriveranno la primavera prossima. Da qui ad allora, i margini di bilancio per fare nuovo deficit - e quindi nuovo debito da cercare sui mercati - saranno sempre più stretti, se non chiusi del tutto: molto probabilmente il terzo scostamento da 20 miliardi che il governo chiederà al parlamento entro fine mese sarà l’ultimo possibile per quest’anno. Quindi, se serviranno altri soldi non c’è che il Mes, e su quel tema le cose non sono cambiate per ora: per la contrarietà dei 5 stelle, o almeno una parte rilevante di essi, i numeri al Senato non ci sono.
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