La trattativa storica per i fondi post-Covid è andata a segno perché il premier ha fatto le mosse giuste in Europa nei mesi scorsi. E così, dopo tutto, è finita bene la “madre di tutte le trattative”. Intanto perché l’Europa ha evitato di suicidarsi, come invece sarebbe accaduto se fosse prevalsa la dissennata posizione di Mark Rutte e dei suoi miopi alleati “frugali”, che avrebbe dato il via a un accelerato processo di dissoluzione dell’Unione per mancanza dei requisiti minimi di coesione e solidarietà. Anzi, ha fatto un passo avanti assumendo, per la prima volta da Maastricht in poi, un sia pur timido profilo politico. È questo forse il tratto più importante che emerge dal duro braccio di ferro: un nucleo – ancora embrionale – di responsabilità continentale che va oltre il mero dato “di mercato” per lasciar affiorare tracce di solidarietà tra popoli e Stati costitutivi dell’Unione. E anche un ancor sottilissimo e parzialissimo sistema fiscale europeo, condizione per politiche economiche e sociali trasversali e condivise.
Si dirà che è poco, ma per chi conosce la storia dell’ultimo ventennio in realtà è molto. È una svolta che fa dell’Europa non solo un mercato ma anche un (possibile) soggetto, il cui carattere e il cui costume è ancor tutto da inventare e da scoprire, ma che quantomeno rompe con l’arcigna figura assunta con le pratiche di austerità e con la vocazione dei forti a sorvegliare e punire i più deboli.
Sei mesi fa sarebbe stato impensabile un esito di questo tipo. Gli euro bond erano allora un tabù che vietava finanche di nominarli in un consesso comunitario, senza che quelli dell’Asse del Nord, tedeschi in testa, tirassero fuori la pistola. Il rispetto assoluto dei vincoli di bilancio era un dogma per gli eurocrati più feroce di quello dell’immacolata concezione per la chiesa cattolica, e il loro allentamento un peccato capitale. L’assunzione di misure a tutela dell’occupazione e del reddito delle famiglie era considerata eresia di fronte alle ferree leggi dell’economia neoliberista. Ora tutto questo sembra (sembra!) archiviato, e i fautori di quell’ideologia totalitaria finiscono in minoranza, come chi nei secoli dei lumi avesse insistito a istituire tribunali dell’inquisizione e accendere roghi. C’è voluto, è vero, il trauma dell’epidemia (in fondo, quasi tutti i salti in avanti della storia sono venuti in seguito a una qualche catastrofe, in genere a guerre), e la grande paura che il Coronavirus non bruciasse solo i polmoni dei cittadini ma anche i residui di legittimazione dei loro stati. Ma alla fine il tavolo di Bruxelles ha scelto la Ragione. O almeno così sembra.
Decisiva è stata, nella circostanza, la svolta della Germania e della Cancelliera Merkel, in asse con la Francia di Macron (bisognoso quanto noi di quelle risorse e in minacciata crisi di consenso in patria). Ma occorre dire che Giuseppe Conte e la sua squadra hanno giocato bene una partita in cui non potevano e non dovevano essere capofila (essendo l’Italia la principale beneficiaria di quelle misure) ma nella quale hanno azzeccato un buon numero di mosse: penso ai numerosi interventi di Conte sui giornali tedeschi per offrire un’immagine decorosa del Paese; penso ai tour per le cancellerie europee a tessere alleanze (immaginiamo se a Palazzo Chigi ci fosse stato Salvini con i suoi proclami a torso nudo dal Papeete…). Sarà più difficile ora provare a scavargli la terra sotto i piedi, per i fautori del Governissimo, fuori e dentro lo sua maggioranza. “Repubblica”, con i toni iperbolici che dal cambio di direzione sfodera, parla di un “Salvini furioso” per il nulla che Conte ha portato a casa. I giornali da sempre di destra radicale provano a ridimensionare il risultato, tentando di dare a Rutte quello che Rutte non ha (il “freno d’emergenza” non assomiglia nemmeno lontanamente a un diritto di veto, e la sorveglianza sul modo in cui le risorse europee saranno spese è collegiale con decisioni prese a maggioranza qualificata, come è normale che sia). Gridare all’alto tradimento è semplicemente ridicolo.
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