Flavio Briatore ricoverato Covid19La notizia della positività di Flavio Briatore, negazionista sfacciato del Covid e titolare della discoteca che è diventata il maggiore centro di contagio dell’estate, è stata ieri riportata in apertura da tutti i maggiori quotidiani italiani. Giustamente, anche se per alcuni si tratterebbe di un’informazione degna di un rotocalco rosa, con il focolaio del Billionaire scambiato per un falò di confronto di Temptation Island. Inquadrare questa notizia tra gli esempi della terrificante omologazione giornalistica di cui molto spesso soffre la nostra stampa o peggio spacciarla per una nota folkloristica è da dilettanti.   Non è gossip, questa è la storia di un imprenditore che nell’estate della pandemia ha preteso di continuare a guadagnare quanto e più di sempre sulla pelle dei suoi dipendenti e dei clienti della sua discoteca, negando a gran voce l’esistenza del virus. È l’emblema della stagione del “liberi tutti”, durante la quale tanti degli sforzi compiuti durante il lockdown sono stati vanificati andando a nutrire il paradosso della prevenzione, secondo il quale il calo dei contagi non sarebbe frutto di tre mesi di chiusura e del rispetto delle basilari regole di sicurezza ma la prova che il Covid non esiste. Per magia?  È la storia di un imprenditore che, a differenza dei comuni mortali, riesce a lasciare la Sardegna nonostante i sintomi di un contagio; a raggiungere Montecarlo e poi Milano, dove verrà ricoverato in gran segreto presso un ospedale privato, in un reparto a pagamento non attrezzato per ospitare pazienti risultati positivi al Covid, come nel suo caso.

 

È una storia di classe che fa acqua da tutte le parti, perché dimostra che nella malattia non tutti i cittadini sono uguali. Ci sono quelli che rimangono incastrati in quarantena su un’isola deserta – al netto della Costa Smeralda durante i mesi estivi, lo spopolamento della Sardegna è un incubo reale – e quelli che possono comodamente fuggire dall’Italia e rientrare per vie traverse senza controlli. Ci sono quelli ai quali tocca in sorte l’ospedale di Oristano, o la malconcia sanità pubblica del Sud Italia, e quelli del “solventi” del San Raffaele.

È sufficiente non citare il nome del protagonista di questa storia per capire quanto questa storia abbia un interesse pubblico generale sul quale il mondo dell’informazione ha il dovere di continuare a indagare. Chi considera questa notizia alla stregua di un’edizione speciale dell’Isola dei Famosi, con un enorme cast d’eccezione, il virus che si sostitisce al televoto e la salute come elemento pornografico di intrattenimento, è un portatore sano di cattiva informazione. Fa il gioco dei negazionisti, del morbo più letale di tutti: derubricare a pettegolezzo da bar una vicenda che incide sulla carne viva delle persone.

Ieri mi sono imbattuta su un post Facebook della testata indipendente Slow News, critica nei confronti della stampa mainstream che compattamente riportava in apertura il ricovero di Flavio Briatore. “È questo che cerchi quando apri un giornale?”. I colleghi, a riprova della sbornia collettiva, citano un brano dei Ministri del 2009, “La faccia di Briatore”, e la schermata iniziale del videoclip: “Per i media italiani le vacanze di Flavio Briatore meritano il triplo di attenzione di un’epidemia di colera in Zimbawe che ha colpito 70.000 persone e ne ha fatte fuggire altrettante. Lo stesso oblio mediatico è toccato alla crisi sanitaria del Myanmar, alla Somalia e al Congo Orientale, paesi dilaniati dagli scontri tra Governo e gruppi militari ribelli. Ogni volta che vedi la faccia di Briatore – conclude la scritta – ricorda quello che non ti stanno facendo vedere”.

Slow News è un progetto editoriale di approfondimento, non schiacciato sull’attualità e non succube del clickbait che in qualche modo cerca di imporre in Italia un modello giornalistico più ecologico, meno inquinato dalle pretese degli algoritmi e dallo sciaccallaggio mediatico per il quale anche le carcasse devono essere spolpate. Nasce perché l’informazione italiana cerca di emanciparsi dal primato della carta stampata da almeno un decennio senza successo. Ci siamo tutti dentro fino al collo ma la sacrosanta battaglia per restituire qualità al nostro giornalismo digitale si sta polarizzando su posizioni integraliste che non aiutano affatto la causa.

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dall'articolo di Giuliana Sias  per TPI.it 

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