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Il target: un team "Usca" ogni 50mila abitanti. In Veneto attivate 51 squadre su 98. Anche in Campania circa la metà. In Lombardia "ne mancano due su tre". Piemonte ed Emilia-Romagna sono "in regola". Ecco cosa è stato fatto, a livello regionale, per creare quel sistema pensato per alleggerire la pressione sugli ospedali e sui medici di base. La federazione dei medici di medicina generale denuncia: "Ogni Asl ha stabilito in autonomia come farle funzionare: in tanti casi sono state praticamente inutili".  Erano state pensate per monitorare la situazione clinica di chi è positivo al Covid in isolamento, somministrare i giusti farmaci ai malati ed eventualmente per fare tamponi a domicilio. Squadre composte da almeno un dottore e un infermiere, con un obiettivo preciso: alleggerire la pressione sugli ospedali e sui medici di base. Ma a 7 mesi dall’inizio dell’emergenza sanitaria e con la seconda ondata alle porte, le Usca (Unità speciali di continuità assistenziale) sono ancora in alto mare: rispetto alle 1.200 squadre attese in tutta Italia, le Regioni in regola sono poche.

Le Asl del Piemonte e dell’Emilia Romagna hanno raggiunto nelle scorse settimane il target fissato dal ministero (1 team ogni 50mila abitanti), mentre in Lombardia e Veneto i numeri non sono molto diversi dalla scorsa primavera. Contattato da Ilfattoquotidiano.it, il Pirellone non fornisce alcun dato; nemmeno al gruppo Pd che ha fatto un accesso agli atti. Stando a una ricognizione manuale con le singole Asl fatta dai dem, “ne risultano istituite meno di 70 su 200“. La Sanità targata Zaia, invece, è ferma a 51 su 98 a causa della “carenza di personale sanitario”. Poi c’è chi è partito in ritardo e non ha ancora recuperato terreno, Calabria e Sardegna in testa. “Nei territori dov’erano presenti hanno dato una grossa mano durante le fasi più dure della pandemia”, spiega al Fatto.it Domenico Crisarà, vicesegretario nazionale della Federazione italiana dei medici di Medicina generale (Fimmg). Ma adesso il problema non riguarda solo i numeri: “Ogni Asl ha stabilito in autonomia come farle funzionare: in tanti casi sono state praticamente inutili. Non bisogna perdere tempo, vanno inserite in modo organico nella medicina territoriale. Per gli anziani soli a casa, magari con i figli lontani, il contatto in presenza con i medici è fondamentale”.  

Cosa è stato fatto durante la fase 1 – Il decreto legge del governo che ha istituito le Usca risale al 9 marzo, proprio il giorno in cui in Italia cominciava il lockdown. Nel provvedimento si chiedeva alle Regioni di crearne una “ogni 50mila abitanti” per la gestione domiciliare “dei pazienti affetti da Covid-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero”. Tutto “entro dieci giorni“, in modo tale da consentire “l’attività assistenziale ordinaria” a medici di base, pediatri e guardie mediche. Unità speciali composte da dottori già in servizio, specializzandi in Medicina generale o, “in via residuale”, da laureati “abilitati e iscritti all’ordine”. Nel decreto si specificava pure l’orario di lavoro – sette giorni su sette, dalle ore 8.00 alle ore 20.00 – e un compenso non da poco: 40 euro lordi l’ora. In realtà per settimane tutto è rimasto carta straccia. Le prime Usca si sono mobilitate solo a fine marzo, quando la medicina del territorio era già al collasso e i cimiteri della bergamasca non bastavano più a contenere le bare. Stando all’ultima ricognizione effettuata dalla Fimmg, il loro numero è salito a 600, cioè alla metà di quanto preventivato inizialmente, solo a inizio giugno.

Situazione nelle Regioni – Via via ritardi si sono accumulati, complice anche il rallentamento della diffusione del coronavirus osservato durante l’estate. Così oggi le Usca sono ancora attive a macchia di leopardo, anche se una stima complessiva non esiste. In Piemonte ed Emilia Romagna, dove gli abitanti sono all’incirca 4 milioni e mezzo, bisognava istituirne almeno 88. L’obiettivo è stato sostanzialmente raggiunto: la giunta a guida Cirio può contare su 90 Unità speciali, mentre Stefano Bonaccini è arrivato a quota 85. Diverso è il caso della Lombardia, nonostante sia stata la Regione più colpita dalla prima ondata. Su 200 Usca previste dal ministero, ne mancherebbero all’appello più di 130. A Milano al momento sono attive 5 squadre anziché 10, ma dall’Ats assicurano che è possibile ampliarle in qualunque momento. “All’inizio era una corsa contro il tempo, non avevamo nemmeno i tamponi perché la Regione ne aveva troppo pochi”, racconta un medico che fa parte del team meneghino. “Facevamo da filtro agli ospedali e andavamo casa per casa al posto dei medici di base, dal momento che non c’erano mascherine e tute per tutti. Ora è da tre o quattro settimane che stiamo tornando alla fase precedente, i contagi sono aumentati a vista d’occhio”.

Nel Veneto guidato da Luca Zaia sono attive solo la metà delle Usca, mentre la Sicilia è a 70 su 100. Il governatore Nello Musumeci si è mosso in ritardo rispetto alle Regioni del Nord, ma nei giorni scorsi ha emesso un’ordinanza che mira a rafforzare ulteriormente le squadre speciali nelle aree metropolitane di PalermoMessina e Catania. L’obiettivo è arrivare a un’unità “ogni 25mila abitanti” – un rapporto più basso rispetto a quello fissato dal governo – da utilizzare anche nelle scuole per assistere il personale scolastico nella gestione dei casi Covid. Poi ci sono la Sardegna, ferma a 19 su 32, e la Calabria, dove le polemiche non si sono mai fermate. Solo nelle scorse ore il consigliere dem Carlo Guccione ha accusato l’Azienda sanitaria di Cosenza, la più grande della Regione, di errori e inefficienze. A suo dire le Usca “non sono operative a pieno regime o non sono entrate in funzione per carenza di medici e infermieri. Invece di essere operative sette giorni su sette, dalle 8 alle 20, operano un giorno a settimana avendo a disposizione soltanto quattro medici e tre infermieri che ogni giorno si recano per qualche ora nelle varie sedi Usca della provincia”. Perché questi ritardi? I fondi non mancano, dal momento che il governo aveva previsto una prima tranche da 600 milioni a marzo e ha aggiunto sul piatto altri 60 milioni con il Dl Rilancio. Da un lato si tratta di scelte sbagliate da parte della politica, dall’altra c’è una cronica carenza di personale che riguarda anche gli ospedali, le case di riposo e i medici di famiglia. Anche in Puglia, come in Lombardia, l’argomento Usca è un tabù. I consiglieri regionali M5s sostengono che “dal Dipartimento della salute non è pervenuta alcuna risposta su quante sono le unità attive per provincia”. In Campania, invece, diversi quotidiani riferiscono che ne sono state istituite circa 60 rispetto alle 115 previste.

Il caso Lazio: 400 medici e infermieri a chiamata – Caso a parte è il Lazio, che a fianco al sistema di Usca previsto a livello nazionale ha istituto le Uscar. A cambiare non è soltanto la R finale (che sta per “regionale”), ma soprattutto l’inquadramento di medici e infermieri. “Finora abbiamo fatto due bandi”, spiega il coordinatore Pier Luigi Bartoletti, “al momento siamo in 400, ma puntiamo a salire a 800 con il prossimo bando. Siamo tutti liberi professionisti“. L’obiettivo delle 110 unità previste dal decreto, quindi, è ampiamente superato. Ma il vantaggio, chiarisce Bartoletti, è che si tratta di una struttura agile, su base volontaria, organizzata esclusivamente online. “Abbiamo un gruppo Telegram con tutti i membri, raccogliamo le disponibilità su Doodle di Google e sulla base di quelle facciamo i turni per il giorno successivo”, spiega. “Facciamo base allo Spallanzani di Roma e ci muoviamo su segnalazione dell’assessorato, delle Asl e dei medici di base. Facciamo di tutto, dagli interventi a domicilio ai drive-in negli aeroporti, alle visite nelle case di riposo all’assistenza negli alberghi”. Il risultato è che, mentre durante i mesi estivi i medici delle Usca di tutta Italia si sono limitati a pochissimi interventi (in Puglia una ventina in due mesi), nel Lazio sono state fatti finora “oltre 200mila tamponi, 140mila valutazioni cliniche, 60mila sierologici”.

Crisarà (Fimmg): “Necessari, ma le regole di ingaggio vanno riviste” – Numeri a parte, è evidente che le Usca da sole non bastano. Il ministero della Salute le ha da sempre considerate complementari ad altri due fattori: il contenimento del virus grazie al distanziamento sociale e alle norme igieniche e soprattutto il tracciamento dei positivi. Con oltre 10mila contagi quotidiani, però, il sistema di contact tracing è praticamente saltato. Come a Milano, dove nelle scorse ore l’Ats metropolitana ha ammesso di aver superato il punto di non ritorno. Le Unità speciali rischiano quindi di arrivare troppo tardi nelle case dei malati. A questo si aggiungono problemi organizzativi che finora non sono stati risolti (caso Lazio a parte). “I medici assunti per l’Usca devono essere inquadrati nel contratto di medicina generale, altrimenti se non definisci cosa fanno né le procedure che devono rispettare, ogni Regione fa da sé. Addirittura le regole variano da provincia a provincia”, chiarisce Crisarà della Fimmg. “Così succede che nella mia zona, in Veneto, diventano praticamente inutili, perché se devo fare 5 passaggi per mandarli a casa di un paziente, faccio prima a prendere la macchina e ad andarci io”. L’idea, invece, è che siano un vero e proprio braccio operativo dei medici di base, non un ostacolo. “In altri posti sono stati senz’altro più utilizzati, ma ora la conferenza delle Regioni deve mettere ordine a questa cosa”. Con l’aumento dei contagi, chiarisce Crisarà, il loro contributo può essere determinante. “Il Covid non può fermare tutto il resto com’è accaduto durante il lockdown, dalle visite ai pazienti oncologici a quelli fragili. Le Usca potrebbero fare da filtro, e soprattutto permetterebbero di mantenere un contatto diretto con i pazienti. Le persone hanno bisogno di vedere il medico di persona”, conclude. “È necessario ripensare l’organizzazione della medicina territoriale. Serve solo la volontà politica per farlo”.

Articolo di   per IlFattoQuotidiano.it 

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