Che ne servivano decine di migliaia in più anche prima della pandemia, e che i piani per aumentarne il numero e contrastare il coronavirus non sono bastati o sono falliti. Anni di mancati investimenti e di tagli di spesa sul sistema sanitario nazionale hanno portato a una grave carenza di personale medico che è diventata evidente durante la prima ondata dell’epidemia da coronavirus e che, nonostante molti proclami e annunci, non è stata risolta in vista della seconda. A mancare sono tante figure professionali, dagli anestesisti ai medici di famiglia: ma tra quelle di cui si è sentita più l’assenza negli scorsi mesi ci sono gli infermieri, una delle categorie contemporaneamente più sottodimensionate in Italia e più importanti nella gestione di un’epidemia, negli ospedali come nelle RSA e nelle case di riposo. Le soluzioni di emergenza adottate nelle settimane del lockdown per fronteggiare il problema non sono state seguite da interventi più strutturali: non quelli sul medio e lungo periodo, che sarebbero importanti e tardivi, ma nemmeno quelli sul breve e brevissimo, che sarebbero stati necessari per prepararsi alla seconda ondata. Il personale è stato aumentato di migliaia di unità, ma in gran parte con modalità di assunzione che hanno compromesso il risultato finale. E il più importante tentativo del governo di intervenire sul problema, l’istituzione dei cosiddetti “infermieri di famiglia”, per ora è fallito.
Quanti infermieri ci sono e quanti ne mancano
Le stime sugli infermieri che mancano al sistema sanitario nazionale variano a seconda delle federazioni o dei sindacati che le calcolano, ma in linea di massima se ne stimavano 50mila in meno rispetto al reale fabbisogno prima dell’epidemia. Questo numero, nonostante negli ultimi mesi ci siano state migliaia di assunzioni, adesso è più alto perché la pandemia ha radicalmente cambiato le necessità di ospedali e delle altre strutture sanitarie.
Secondo la Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (FNOPI), l’ente pubblico che gestisce l’albo a cui devono obbligatoriamente iscriversi gli infermieri in Italia, per ogni infermiere c’è una media di 11 pazienti. L’ideale sarebbero 6. Il Friuli Venezia Giulia, la regione che si avvicina di più, il rapporto è di 1 a 8. In Campania, la regione che avrebbe più bisogno di tutte di infermieri, è di 1 a 17.
Gli infermieri ogni mille abitanti sono 5,6, cioè poco di più di quelli della Spagna, ma meno dei 6,5 del Regno Unito e soprattutto dei 10,5 della Francia e dei 12,8 della Germania. A essere molto più basso degli altri principali paesi europei è il rapporto tra infermieri e medici: 1,41 in Italia, 1,44 in Spagna, 2,82 nel Regno Unito, 3,07 in Germania.
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Come arriviamo alla seconda ondata
«La situazione è che ci ritroviamo ad affrontare la seconda ondata, che era prevista, ancora una volta con le armi spuntate» dice Antonio De Palma, presidente del sindacato Nursing Up. «Si era detto che avrebbero dovuto assumere il personale, sono state fatte le norme per le nuove assunzioni, ma in Italia in cui esistono 20 sistemi sanitari e 20 repubbliche ogni regione si muove in ordine sparso». Il risultato è che «in diverse regioni, dalla Lombardia alla Campania, gli infermieri non ci sono e quindi siamo costretti a chiudere reparti ordinari per trasferirli nei reparti Covid».
Nelle settimane del lockdown gli infermieri, insieme ai medici delle terapie intensive, erano stati eletti a simbolo dell’eroica resistenza all’epidemia degli ospedali. I loro sforzi, i turni sfiancanti e il sacrificio personale – gli infermieri morti finora di COVID-19 sono 44 – erano stati ampiamente raccontati e celebrati, con l’implicita promessa che le cose sarebbero cambiate una volta superata l’inattesa prima fase della pandemia. Ma non è stato così.
La carenza di infermieri negli ospedali è ancora seria ed è aggravata oggi dal fatto che, mentre i reparti Covid stanno tornando ad affollarsi, gli ospedali devono continuare a garantire le cure agli altri malati. Alcune prestazioni ordinarie che a marzo, aprile e maggio erano state rimandate, sono diventate ora urgenti, per l’aggravarsi dei pazienti.
Nel lockdown interi reparti – la traumatologia, per esempio – erano privi o quasi di lavoro, con gli infortuni e gli incidenti quasi azzerati. Altri reparti, sospendendo gli interventi rimandabili, avevano potuto prestare personale per i pazienti Covid. Oggi non è così: se certi ospedali stanno già chiudendo interi reparti ordinari per concentrare le risorse sui reparti Covid, altri stanno facendo il possibile per continuare a fornire tutti gli altri servizi. Oltre che per una questione di spazi, è la mancanza di personale a renderlo difficile: di anestesisti, rianimatori, medici, ma anche di infermieri e di operatori socio-sanitari (OSS).
Come sono stati assunti gli infermieri durante l’epidemia
Il ministero della Salute dice di aver assunto dall’inizio dell’epidemia oltre 16mila infermieri, ma secondo la FNOPI si tratta di personale a cui sono stati offerti contratti a tempo determinato o di collaborazione (co.co.co). Questo è stato un problema: durante la prima ondata le regioni che avevano a disposizione una graduatoria con la quale assumere infermieri lo hanno fatto, con contratti a tempo indeterminato. In altri casi sono stati usati gli elenchi di iscrizione a concorsi già indetti ma ancora da svolgersi. «Ma le graduatorie sono finite subito, e tante regioni non le avevano nemmeno» spiega Nicola Draoli del comitato centrale della FNOPI.
«Si parla di contratti scandalosi, a tempo determinato o come libero professionista a 16 euro l’ora: contratti che non accetterei nemmeno se fossi neolaureato» dice Giuseppe Papagni, infermiere pugliese e direttore del sito specializzato NurseTimes. E infatti molti bandi degli ospedali sono andati deserti. La prospettiva di lavorare in un luogo ad alto rischio come un ospedale, con un contratto di pochi mesi e senza tutele in caso di malattia, è una prospettiva poco attraente per molti. In molti casi, a partecipare a questi bandi sono stati infermieri neolaureati, che spesso sono finiti in reparti Covid senza nessuna esperienza. Chi aveva già un lavoro a tempo indeterminato, e quindi plausibilmente più anni d’esperienza, nella maggior parte dei casi ha preferito rimanere dov’era.
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dall'articolo di IlPost.it
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