Prima i Governatori pretendevano di decidere in nome "del territorio", ora ributtano la palla sul governo. Favoriti dalla litigiosità della maggioranza su alcuni temi cruciali. Lo spartiacque è stato una settimana fa quando Vincenzo De Luca, governatore-sceriffo della Campania, ha chiesto il lockdown. Non per la sua regione: a livello nazionale. Prima che anziché invocarlo si limitassero a evocarlo - con un grosso punto di domanda e molti scongiuri - il premier Giuseppe Conte, l’ala rigorista del governo, il ministro della Salute Roberto Speranza, i virologi meno preoccupati. E la possibilità garantita da Dpcm per le singole Regioni di prevedere misure più restrittive rispetto a quelle dello Stato? Peraltro criticata da molti governatori, che volevano la speculare possibilità di misure più lievi per salvaguardare – esempio di Giovanni Toti – i chioschi bar delle spiagge liguri deserte? Carta straccia. La seconda ondata del covid, oltre a mettere a dura prova la solidarietà tra cittadini, a spingere le generazioni una contro l’altra, a incalzare le categorie produttive a guardare i ristori in casa d’altri, rischia di dare il colpo di grazia ai già duramente provati rapporti tra Stato e Regioni. Un bis più stantio dei conflitti di potere, a colpi di ordinanze concorrenti e spesso contraddittorie, registratesi a primavera scorsa. Favorito, va detto, dalla confusione e dall’alto tasso di litigiosità all’interno della maggioranza stessa, dove a volte passa l’immagine di un ministro o un partito che guardano al proprio settore o al proprio bacino elettorale di riferimento.
Ecco quindi un brusco cambio di rotta rispetto alla fase iniziale settembrina, quando dal Veneto alla Liguria, dalla Lombardia alla Campania, era un profluvio di: lasciateci decidere da soli, il nostro territorio lo conosciamo noi. Una posizione che si è logorata giorno dopo giorno in un interminabile braccio di ferro di riunioni che partorivano provvedimenti già obsoleti al successivo monitoraggio dei contagi: scuole, università, trasporti, palestre e piscine, calcetto e karate, bar e ristoranti, orari del coprifuoco, divieti di assembramenti, mascherine all’aperto, partecipanti alle cerimonie, tamponi solo agli asintomatici. La conferenza Stato-Regioni si è trasformata nel terzo ramo del Parlamento, con i lavori preparatori affidati alla conferenza delle Regioni, presieduta dal Dem Stefano Bonaccini e rivendicata dal centrodestra senza troppa convinzione perché tanto la linea non cambierebbe. E’ quella dell’autonomia nelle scelte apprezzabili per i cittadini e viceversa dalla condivisione di decisioni impopolari, nella migliore tradizione del gioco del cerino. Così, c’è chi è andato a dormire federalista e autonomista per risvegliarsi centralista rinato all’alba dell’aumento esponenziale dei contagi, del fallimento dei sistemi di tracciamento, delle terapie intensive in sovraccarico, del sistema sanitario ai limiti dell’implosione.
Il governatore ligure Toti, il primo a guidare la rivolta contro le mascherine all’aperto e a scagliarsi contro “lockdown striscianti” nella prima decade di ottobre si esprimeva così: “La limitazione del potere di ordinanza ampliativo delle Regioni turba il leale equilibrio istituzionale che è dovuto tra Regioni e governo centrale. Noi possiamo modulare le iniziative sul territorio con maggiore appropriatezza rispetto alla visione d’insieme nazionale”. Il collega veneto Luca Zaia, potente governatore leghista che ha imposto l’inserimento dell’autonomia nel programma del centrodestra, tuonava: “Questo dirigismo è segno manifesto di una sfiducia nelle Regioni”. E ancora: “Non vogliamo fare i bulli, è giusto che a Roma ci sia una regia, ma poi i malati ce li abbiamo noi”. E poi: “Contro il Covid serve più potere alle Regioni, lasciate fare a noi”. Erano i giorni in cui l’emiliano Bonaccini era a favore della riapertura (controllata) degli stadi mentre De Luca capitalizzava la fama di duro a cui doveva la rielezione campana estendendo le minacce di lanciafiamme. Lo schema classico prevedeva le Regioni del Nord più “liberiste” e quelle del Sud più “rigoriste”, ma tutte decise a rivendicare spazi di autonomia decisionale. Con toni soft, lo ribadiva anche il pugliese Michele Emiliano: “Le Regioni chiedono quel margine di autonomia per scegliere dal punto di vista politico il punto di equilibrio tra sicurezza e gestione della situazione economica”.
E adesso, quel punto di equilibrio dov’è finito? Ora che il famigerato indice Rt vede non cinque bensì undici Regioni vicine alla soglia critica? Di sicuro, le Regioni sperano che a individuarlo sia il governo. Reso edotto delle loro esigenze dalle sfiancanti video-riunioni quotidiane con il ministro degli Affari Regionali Francesco Boccia. Meglio, alla fine, un lockdown generalizzato imposto da Palazzo Chigi, con la faccia di Giuseppe Conte che ha già pagato pegno nei sondaggi. La notte in cui tutti i gatti sono neri è più facile da gestire, meno urticante da spiegare.
Così un dialogante Toti si aspetta un “confronto reale” ma fa sapere che lui Genova non la chiuderà: “Ne abbiamo parlato con Speranza e anche lui è d’accordo”. A dire: ragazzi, mica decido solo io. Così come vorrebbe mettere in sicurezza gli over 75: italiani, non liguri, ci mancherebbe. Il neo-eletto in Toscana Eugenio Giani suggerisce blocchi delle forze dell’ordine a presidiare i confini regionali e apprezza la direzione dell’ultimo dpcm (in fieri). Zaia precisa: chiedo misure nazionali ma mica abdico all’autonomia, servono coperture. A Milano Attilio Fontana è in trincea da giorni contro l’ipotesi di chiusura mirata, e bisogna capirlo: quando si era preso la responsabilità del coprifuoco notturno in Lombardia, è stato maltrattato ruvidamente dal suo leader Matteo Salvini. Che applica all’inverso il ragionamento del cerino: le restrizioni che faranno infuriare la gente se le intestino il premier e il suo governo.
E’ vero che, come recita un diffuso proverbio, il pesce puzza dalla testa. E che l’Italia non è uno Stato federale. Tuttavia, alla politica a tutti i livelli è richiesto di decidere, nei limiti previsti dalla Costituzione e nella famosa accezione della “democrazia decidente”. Fatti salvi forse la scuola e la libertà di ricevere nelle abitazioni private – che presentano riflessi di natura costituzionale – cosa osta – a parte il calo di popolarità - alla facoltà di un governatore di decidere chiusure mirate, oltre che aperture? Non che sia semplice o indolore spiegare – ad esempio – agli esercenti dei centri commerciali lombardi che devono chiudere mentre i concorrenti emiliani, a pochi chilometri di distanza, fanno affari (questione già risolta con la serrata nazionale). Né che basta sconfinare nella Repubblica di San Marino per godersi l’aperitivo. Per tacere, poi delle Regioni a statuto speciale, che marciano da sole. Se però chi – appunto - conosce il proprio territorio e può “modulare le iniziative con maggiore appropriatezza rispetto alla visione d’insieme nazionale” rinuncia a farlo, c’è da chiedersi se l’attuale riparto di competenze, poteri e trasferimenti tra Stato e Regioni non abbia bisogno di un tagliando.
Articolo di Federica Fantozzi per HuffingtonPost.it