Bocciati i ricorsi dei magistrati di sorveglianza di Avellino, Sassari e Spoleto che contestavano il decreto del Guardasigilli sull’obbligo di rivedere periodicamente il via libera agli arresti domiciliari. Una misura assunta per decreto dopo la scarcerazione dei boss tra marzo e aprile. Ha ragione Bonafede. E hanno torto i magistrati - di Avellino, Sassari e Spoleto - che erano ricorsi alla Consulta contro il decreto di maggio firmato dal Guardasigilli dopo i numerosi provvedimenti di altrettanti giudici di sorveglianza che avevano dato il via libera agli arresti domiciliari anche per noti boss mafiosi sulla spinta dell’emergenza Covid. Oltre duecento detenuti in alta sicurezza e quattro anche al 41 bis, avevano lasciato le patrie galere tra marzo e aprile di quest’anno. A quel punto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede era ricorso a un decreto legge per obbligare le toghe a rivedere periodicamente - la prima volta dopo 15 giorni e poi mensilmente - le condizioni sanitarie e logistiche che aveva portato alla concessione stessa dei domiciliari. Quindi non solo lo stato di salute del detenuto, ma anche la disponibilità di posti nei presidi sanitari situati all’interno delle carceri, senza ricorrere a ospedali esterni, come invece era avvenuto in primavera. Una misura che tre giudici di sorveglianza - tra cui Riccardo De Vito di Sassari che aveva concesso i domiciliari al boss Pasquale Zagaria - hanno subito ritenuto lesiva della loro autonomia di valutazione e di giudizio al punto da presentare altrettanti ricorsi alla Consulta contestandone la legittimazione costituzionale.
Ma adesso la Corte - relatore il giudice Francesco Viganò - non lascia spazio a critiche e a dubbi, né tantomeno a possibili margini di incostituzionalità. Perché ritiene che “questa disciplina non sia in contrasto con il diritto di difesa del condannato, né con l’esigenza di tutela della sua salute, né, infine, con il principio di separazione tra potere giudiziario e potere legislativo”. Un giudizio che non lascia alcuno spazio a ulteriori dubbi interpretativi. Perché stabilisce che non c’è stata alcuna lesione dei principi costituzionali per l’obbligo, per i giudici di sorveglianza, di verificare periodicamente la perdurante sussistenza delle ragioni che giustificano la detenzione domiciliare per motivi di salute. Verifica che, per gli stessi giudici, comporta l’obbligo di acquisire una serie di documenti e di pareri, in particolare sia da parte del Direzione del carceri, sia della Procura nazionale antimafia, sia delle singole Procure distrettuali antimafia.
Proprio Repubblica, il 3 maggio, aveva scoperto l’esistenza di una lista di 376 nomi di altrettanti scarcerati ristretti in condizioni di alta e media sicurezza, nonché al 41bis, per i quali erano stati autorizzati gli arresti domiciliari. Boss di mafia, camorra, ‘ndrangheta. Una lista “ballerina”, lievitata fino a 498 nomi. Ancora a settembre, a quattro mesi dalla fine del lockdown, Repubblica con Salvo Palazzolo rivelava che c’erano ancora 112 mafiosi rimasti ai domiciliari per il rischio contagio, “nonostante il decreto Bonafede che doveva riportarli in cella”.
Proprio quel decreto contestato dai giudici che non si sono mai “pentiti” per le misure concesse. Misure che invece la destra ha attribuito a Bonafede soprattutto per via di una circolare del 21 marzo che, dal Dap, allertava i magistrati di sorveglianza sul rischio Covid nelle celle, non solo per chi aveva patologie, ma anche per gli over 70. Dalla sua, il Guardasigilli ha sempre ribadito che “i ministri non scarcerano”. Adesso la Consulta dà il definitivo via libera al suo decreto che imporrà ai giudici di sorveglianza un continuo monitoraggio della concessione dei domiciliari. Misura però che, in tutti i decreti per il Covid, è sempre stata esclusa per gli autori di reati gravi, come quelli di mafia.
Articolo di Liana Milella per Repubblica.it