decreto ristori ottenuto ristorante"Oggi sono arrivati sul conto corrente della Società del nostro ristorante i soldi del Decreto Ristori con cinque giorni di anticipo sulla data prevista, non è elemosina, è ben più di quello che avrei guadagnato tenendo aperto il ristorante". Come tutti i ristoratori, anche Dimitri Bianchi è stato colpito dalla crisi. Con alcuni soci ha aperto un ristorante a Torino, nel quartiere San Salvario, l'ultima “grissinopoli”, la versione torinese della “cotoletta alla milanese”, l'ha servita ormai due settimane fa, prima della chiusura dei locali voluta dal Governo. Lui però non è sceso in piazza, sia per senso di responsabilità, "siamo in pandemia", sia perché prima di lamentarsi del governo ha voluto vederlo all'opera. "La manifestazione che si è tenuta il 26 ottobre a Torino contro il Dpcm del 24 ottobre è stata indetta il giorno stesso, senza nemmeno dare il beneficio del dubbio al Governo e vedere se i ristori promessi da Conte durante la diretta stampa sarebbero arrivati". I ristori sono arrivati, in anticipo, e non sono pochiPerché allora molti ristoratori si lamentano?  Se dichiari poco perché magari batti pochi scontrini è chiaro che ricevi meno di quello che è l'economia reale del tuo ristorante. Ma è colpa tua, o meglio, è conseguenza delle tue scelte, non di quelle dello Stato. Poi ci sono persone che hanno aperto il locale quest'anno e non hanno uno storico del 2019, non so come vengono compensate le loro imprese. Ciò detto, la tassazione in Italia è da sempre troppo alta, il costo fiscale dei dipendenti è spesso la spesa più grande dell'impresa, non fatico a credere che per alcuni colleghi, che magari lavorano bene ma non hanno un ristorante di successo, lavorare parzialmente in nero è quasi sopravvivenza. 

Però se non si pagano le tasse lo Stato non può abbassare tasse.  
Vero, è un cane che si morde la coda. Dovrebbe passare un'etica diversa, ma allo stesso tempo c'è bisogno che lo Stato ti incentivi a non evadere, dando modo all'imprenditore di vedere una reale corrispondenza tra ciò che dai e ciò che ricevi, tra ciò che lavori e ciò che ti torna indietro.

In un post via Facebook diventato virale lei scrive "mi sono un po’ vergognato del vittimismo, spesso pretestuoso, di tanti miei colleghi". Qualche collega si è arrabbiato?
No, e mi ha sorpreso. Forse quello che ho scritto tocca le coscienze più di quanto le manifestazioni e le lamentele sui social facciano credere. Per settimane è sembrato che noi ristoratori fossimo i capri espiatori di questa situazione, ecco, no, serve un po' di onestà intellettuale. Io non mi sento più trascurato di altri, in una situazione in cui tutti, o meglio, in tantissimi stiamo soffrendo. Se ci aggiungiamo il prolungamento della cassa integrazione per i dipendenti, la detrazione fiscale del 60% degli affitti di ottobre, novembre e dicembre e la sospensione dei contributi e delle rate di eventuali finanziamenti, direi che per noi lo Stato ha fatto abbastanza.

Quindi lei è contento che il Governo le abbia chiuso il ristorante.
Con il senno di poi, o meglio, con il bonifico del 10 novembre, sì. Per puro calcolo economico, perché il fatturato sarebbe stato inferiore al ristoro, e per responsabilità civile. Diciamoci la verità, non è che dentro il ristorante il virus smette di esistere, era rischioso per i clienti e per noi che li serviamo, tocchiamo i loro piatti. Vista la curva epidemiologica, non si poteva che chiudere. E ripeto, ora serve aiutare i più deboli.

Chi sono i più deboli?
Banalmente, i miei dipendenti. Sono quattro, la loro cassa integrazione non raggiunge il 50% del loro stipendio, un cuoco con lavoro part-time che guadagnava 1000 euro al mese, ora ne prende 450. Onestamente, come ci vivi con 450 euro al mese? Sono loro i nuovi operai: baristi, cuochi, camerieri, professionisti della ristorazione e dello spettacolo. Se vogliamo tutte queste categorie rappresentano una classe sociale, ma nessuno si sente più una classe.

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dall'articolo/intervista di Stela Xhunga  per FanPage.it

 

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