Non ha firmato la lettera-denuncia dei colleghi "perché non c'ero, ma lo rifarei oggi stesso perché lo confermo punto per punto". Tra i corridoi degli ospedali milanesi, dove è deflagrato il caso della lettera di 50 medici sulle prestazioni dilazionate per mancanza di personale, subito sconfessata dalla direzione, c'è un clima di terrore. Specie dopo il siluramento del primario che aveva scritto le stesse cose alla direzione generale un mese prima. Qualcuno rompe il silenzio, ma dietro garanzia di anonimato. E racconta cosa succedeva nei reparti di emergenza-urgenza al collasso. “Vuole che lo dica bene? Se prendo una pianta che ho scordato di annaffiare e la annego, quando ormai è quasi morta, il risultato è che la pianta muore”. Il clima da caccia alle streghe dentro gli ospedali San Paolo e Carlo di Milano impone l’anonimato al personale sanitario che lavora nei reparti d’urgenza, che 50 colleghi medici e rianimatori hanno definiti al collasso, con 350 posti letto già occupati, le barelle che si trasformano in letti e le sale di attesa in reparti, coi medici costretti “a fare scelte né clinicamente né eticamente tollerabili” e forzati a dilazionare l’accesso a terapie e tecniche. L’Asst si è mossa per sconfessare quella denuncia, arrivando a rimuovere la primaria che l’aveva anche anticipata, in termini non meno diretti, al direttore meno di un mese prima che i colleghi prendessero l’iniziativa, convinti di doverlo fare a tutela dei loro pazienti e di se stessi.
Lei che opera in quei reparti, conferma o smentisce quanto riportato nella lettera?
Lo confermo punto per punto. Io non l’ho firmata perché non c’ero in quei giorni, ma lo farei oggi stesso, perché quello che ho letto sul vostro giornale, che l’ha riportata, è né più né meno di quanto accade. Nonostante la mancanza di risorse fosse nota a tutti da tempo, ci siamo trovati di fronte a scelte eticamente difficili verso i nostri pazienti. Lavorare in quella bolgia in questo momento è difficilissimo, inumano. Siamo tutti ammassati come carne da macello. E vale per i pazienti come per i medici, gli infermieri e le OSS. Lavoriamo in condizioni che un dispensario del Ruanda è meglio.
Nello specifico, a lei è successo?
Più volte, purtroppo. Mi sono trovata che non avevo a disposizione un’anestesista per una sedazione per un paziente particolarmente compromesso che necessitava di una cura particolarmente invasiva. Poi il collega si è reso disponibile, ma dopo due ore e mezza.
Ci spiega esattamente il problema?
Tecnicamente si chiama “timing”. Significa che in medicina fare la cosa giusta nel tempo sbagliato equivale a fare quella sbagliata. Punto. I colleghi, e questo le persone lo devono capire bene, non hanno detto che non hanno curato i pazienti, ma che si sono trovati a dilazionare le prestazioni per mancanza di personale. Quando una persona va intubata va fatto subito. Quell’intervento veniva poi fatto appena possibile, ma dilazionato. Ricorda il discorso della pianta?
Ma alla radice di tutto questo cosa c’è?
Le risorse di personale che mancano. Mancavano da anni, sono mancate anche nell’emergenza. Ho letto il comunicato dell’Asst che parla di 97 medici assunti e 94 infermieri da febbraio. Quello che non si dice è che la maggior parte di quelle posizioni è andata a integrare i pensionamenti, e che molti contratti attivati erano a termine e a settembre sono cessati. Quando è arrivata la seconda ondata ci siamo ritrovati ancora più in sofferenza di prima, in tutti i reparti. Poi hanno tentato di tamponare con i neolaureati che il giovedì sono usciti dall’università e il sabato sono stati sbattuti in pronto soccorso Covid. Senza una formazione specifica degna di questo nome che consentisse loro di muoversi agilmente in corsia.