ricercatori italianiGuadagnano in media 1500 euro al mese. Arrivano alla stabilizzazione intorno ai 50 anni. E sempre più spesso decidono di abbandonare il nostro Paese. Lo scenario.  Una schiera di almeno tremila precari della ricerca biomedica – la metà del totale – sta avviando un percorso verso una minima stabilizzazione. Un’attesa durata anni e che solo a fine 2019, dopo tante proteste, si è in parte sbloccata. In parte, perché come è emerso Francesca Colavito, una delle protagoniste della ricerca dello Spallanzani di Roma sul coronavirus, è l’emblema della precaria con un co.co.pro.  Proprio a fine dicembre è comunque partito il meccanismo della “piramide del ricercatore”, etichetta introdotta dall’ex ministra della Salute Beatrice Lorenzin e avviata dall’attuale ministro Roberto Speranza, che definisce il percorso verso qualche maggiore tutela, benché sul fronte stipendio non cambi moltissimo. Il reddito annuo è inferiore ai 25 mila euro lordi. Non proprio stellare, di sicuro imparagonabile in confronto agli altri Paesi. 

 

RICERCATORI CONDANNATI AL PRECARIATO

La legge in vigore stabilisce che dopo anni di contratti atipici, co.co.pro, Partita Iva e borse di studio, il ricercatore può sottoscrivere un contratto a tempo determinato di cinque anni, rinnovabile per altri cinque nel caso in cui le valutazioni sul suo lavoro siano positive. E dopo 10 anni cosa accade? Ci dovrebbe essere un inserimento stabile nel Sistema sanitario nazionale. Solo che la gran parte arriva da un pregresso di precariato di circa dieci anni a cui quindi si somma il decennio da superare con il contratto a tempo determinato. Un traguardo che nella migliore delle ipotesi viene raggiunto intorno ai 50 anni. Un’anomalia tutta italiana. Eppure basterebbe abbassare a tre anni i contratti a tempo determinato per ridurre la durata del precariato, suggeriscono i rappresentanti di questi lavoratori.

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