L’ex senatore berlusconiano Antonio D’Alì è stato condannato a 6 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. La sentenza è stata emessa dai giudici della Corte d’Appello, al termine di un lungo iter processuale iniziato nel 2011. “E’ stato il politico a disposizione dei Messina Denaro, prima del vecchio don Ciccio e poi del figlio Matteo, tuttora ricercato”, ha detto il procuratore generale Rita Fulantelli, che al termine di una requisitoria durata due ore aveva chiesto la condanna a 7 anni e 4 mesi. La corte d’Appello inoltre lo ha interdetto per 3 anni dai rapporti con i pubblici uffici. Le motivazioni saranno depositate entro 90 giorni. Il processo d’Appello bis ha avuto inizio dopo l’annullamento nel gennaio 2018 della Corte di Cassazione del precedente giudizio di assoluzione e prescrizione per i fatti precedenti al 1994. Anche in questo caso, come nel caso del processo d’appello a Nicola Cosentino concluso oggi, se fosse stata in vigore la riforma Cartabia sulla prescrizione, la sentenza non sarebbe stata pronunciata perché sarebbe già stato superato il limite di 3 anni previsti dal disegno di legge della ministra per reati di mafia.
Nel corso del processo, per la prima volta, sono sfilati una ventina di testimoni, alcuni finora mai ascoltati in aula, nel tentativo di colmare “cadute logiche” evidenziate dalla Suprema Corte nel primo giudizio di appello pronunciato nel 2016. Tra le “lacune” da colmare c’era soprattutto la “cesura illogica della suddivisione netta in due periodi”, pre e post 1994, che sia in primo grado che in Appello, era stato fissato con la data dell’ultimo assegno consegnato da D’Alì a Francesco Geraci, amico del latitante di Castelvetrano, per una compravendita fittizia di un terreno in contrada Zangara, la stessa in cui lavorava don Ciccio. Un episodio accertato da tutte le sentenze finora emesse, seppur coperto da prescrizione, che data all’indomani delle Stragi del ‘92 il link tra D’Alì e l’ultimo ricercato di Cosa Nostra.
“Con il suo operato ha consapevolmente e fattivamente contribuito al sostegno e al rafforzamento di Cosa Nostra – ha detto il pg durante il suo intervento – mettendo a disposizione le proprie risorse economiche e successivamente il proprio ruolo istituzionale di Senatore della Repubblica e di Sottosegretario di Stato”. A partire dalle discusse elezioni politiche del 1994, D’Alì ha seduto per vent’anni in Senato, più volte rieletto nel suo feudo elettorale. Da alcuni anni il politico trapanese, adesso 69enne, si è defilato dalla politica e recentemente la Cassazione ha confermato la revoca della misura di prevenzione dell’obbligo di dimora nella sua città, dopo un anno di effettive limitazioni. Tra gli episodi affrontati nel corso del processo d’Appello bis, c’era la vicenda della ‘Calcestruzzi Ericina’, l’azienda confiscata al boss Vincenzo Virga, ed il trasferimento del prefetto Fulvio Sodano, ratificato in Consiglio dei Ministri l’1 luglio 2003. Secondo l’accusa, l’obiettivo di Cosa Nostra, attraverso D’Alì, era quello di “estromettere la Calcestruzzi Ericina attraverso escamotages” e “condizionare il mercato del calcestruzzo” in favore delle imprese vicine, per “svuotare l’Ericina”, fin quando un imprenditore amico avrebbe l’avrebbe acquisita “con la benedizione della Prefettura, ma l’opposizione di Sodano bloccò tutto”. Ma anche del tentativo di allontanare capo della Squadra Mobile di Trapani, Giuseppe Linares. Che alla fine del 2010 fu davvero trasferito ma i fatti contestati riguardano gli anni precedenti.
Sul trasferimento di Sodano i giudici hanno ascoltato tre testimoni di spessore come l’ex ministro Beppe Pisanu, l’ex presidente della Regione Siciliana Totò Cuffaro ed il prefetto Carlo Mosca, capo di gabinetto di Pisanu. Testimonianze che non avevano convinto la Procura generale, né la corte d’Appello, che ha disposto la trasmissione dei loro interrogatori alla Procura per falsa testimonianza. Nel corso delle indagini, i magistrati riuscirono ad interrogare il prefetto Sodano, all’epoca costretto ad una mobilità ridotta a causa di una grave malattia e morto nel febbraio 2014. “Mi rivolsi al Presidente della Regione (Cuffaro) chiedendogli di accertare il vero motivo del trasferimento, dopo qualche giorno lo stesso mi riferì che si era fatto ricevere da Pisanu il quale gli aveva detto che dopo aver resistito alle pressioni del D’Alì alla fine aveva dovuto cedere alle insistenze del sottosegretario che pur sempre era uno dei suoi più stretti collaboratori”, raccontò Sodano il 19 aprile 2007.
Nel corso del processo la Corte ha ascoltato anche il collaboratore di giustizia Antonino Birrittella, che ha riferito dei rapporti l’intervento di D’Alì in diversi appalti pubblici, tra cui quelli per il rifacimento del porto di Trapani, che portarono alla Louis Vuitton Cup, e le procedure in favore del Consorzio Trapani Turismo, formato da imprenditori sfiorati da indagini antimafia. Ma anche l’ex collaboratore di giustizia, Giovanni Ingrasciotta, per cui la procura generale, al termine della requisitoria, ha chiesto la trasmissione degli atti per falsa testimonianza. Nonostante in fase di indagini avesse parlato dei rapporti tra D’Alì e Matteo Messina Denaro, raccontando anche di un incontro tra i due, successivo al periodo delle Stragi, nel corso della sua audizione ha glissato ad alcune domande, rispondendo con molti “non ricordo”. “Purtroppo signor procuratore, nella vita sa com’è? – ha detto in aula, prima di riferire di alcune presunte minacce subite in seguito alle sue dichiarazioni su D’Alì. – Ci sono momenti che nella vita uno non si ricorda neanche come si chiama, come adesso”. Anche il suo interrogatorio sarà trasmesso per falsa testimonianza alla Procura di Palermo.
Articolo di Marco Bova per IlFattoQuotidiano.it