Scusate, ma per parlare del caso del giorno – “il caso Travaglio” – purtroppo bisogna entrare negli automatismi del vernacolo. Se uno dicesse: “Quello è un figlio di puttana”, tutti capirebbero che l’oggetto dell’insulto è il figlio, non la madre. Quando si dice “figlio di puttana”, anche nell’accezione più positiva – che esiste – si parla di uno spregiudicato, di un furbastro, di un dritto. Non certo della professione materna e della virtù del suo “genitore uno”. Ed ecco perché, dovendo entrare in quello che ormai è diventato un caso mediatico-politico di rilievo bisogna persino spiegare alcune banalità di automatismo della lingua italiana: “figlio di papà”, giusto o sbagliato è un rampollo, un campione delle élite, cresciuto in un ambiente protetto in mezzo ai suoi simili. Del padre questo lemma dice poco, o nulla, del figlio dice tutto. È certo che Marco Travaglio sbagli nel dire che Mario Draghi è “solo un curriculum” (avercelo, direbbe Totò): non è vero che Draghi non capisca “un cazzo”, ma è certo che ha pasticciato sui vaccini. E non poco: il punto era quello. E non c’è dubbio alcuno che, senza che questa debba essere considerata una colpa, Draghi sia figlio delle élite. È figlio di una farmacista (borghesia agiata) e di un padre che lavorava in Banca d’Italia e che aveva lavorato come dirigente nel mondo del credito. E che ha fatto la sua carriera in Banca d’Italia e nel mondo del credito: figlio – appunto – di suo padre, nella scelta vocazionale di una vita.
Ecco perché la cosa più penosa che si è letta, ieri, era l’argomentazione (non a caso l’ha utilizzata Matteo Renzi) che Draghi sia orfano. Anche Renzi è “un figlio di papà”, indipendentemente dallo stato di salute di papà Tiziano. È cresciuto nell’azienda di famiglia, non ha mai lavorato un minuto in vita sua, prima della politica: prendeva la paghetta dalla ditta di papà e mamma Renzi, poi gli abbiamo dato uno stipendio noi, la collettività. E di certo Renzi è più “figlio di papà” di Draghi.
Ma quando si parla dell’ambiente del liceo Massimo a Roma, quello dove ha studiato l’ex governatore, non a caso si dice: “Quella è una scuola per figli di papà”. Lo si fa senza scomodare anagrafi e certificati di morte: è – ancora oggi – il liceo delle élite, dove la classe dirigente romana iscrive i figli che non vuole sottoporre alle incertezze della scuola pubblica.
La categoria di cui si parla – dunque – è quella dei figli protetti, che frequentano persone di pari censo, non quella dei padri facoltosi e dei loro mestieri. Sarebbe come se parlando di qualcuno dandogli del “figlio di puttana” si ribattesse: “Ma guarda che sua madre fa la crocerossina”. Tuttavia, seguendo il filo dell’incongruità, e dell’invettiva contro Travaglio si è arrivati a criticare persino Articolo uno, il partito che organizzava la festa in cui il direttore de Il Fatto Quotidiano ha parlato.
Marco Travaglio ha libertà di opinione, non è eletto, non ha ruoli istituzionali, può dire dei leader politici quel che vuole. Giusto o meno lo giudicano i suoi lettori. Chi non condivide è libero, a sua volta, di criticarlo. Io non condivido l’iperbole dell’invettiva, non sottoscriverei mai il “non capisce un cazzo”. Ma ho scritto su questo sito che Draghi sulla campagna vaccinale ha sbagliato due volte.
Chi oggi fa polemica su Travaglio ha staccato la spina della criticità ed è questo il tema del contendere. I troll leopoldini (e dintorni) che ieri erano scatenati sui social (e sui giornali) contro il direttore de Il Fatto per le sui opinioni, non hanno detto una parola sul vero assurdo della politica in queste ore. E cioè che Matteo Renzi, ancora una volta, ricatta Enrico Letta dicendogli che se vuole candidarsi alla Camera deve abiurare alla sua linea politica.
Il che – comunque la si pensi – è a dir poco folle. Come se un alleato minore del centrodestra – che ne so Lorenzo Cesa – dicesse che Giorgia Meloni o Matteo Salvini non si possono candidare alla Camera nella loro coalizione. Questo è l’editoriale che manca, tra i maestri del coro. Questo il corsivo desaparecido. Quello sul figlio di papà di Rignano, beniamino dei direttori, che con l’uno virgola, pretende ancora di dare le carte nella politica italiana.
Articolo di Luca Telese per TPI.it