Intervista all'epidemiologo italiano che opera negli Usa: “Per la Fase 2 bisogna ‘testare’, ‘tracciare’, e ‘trattare’. Da qui non si scappa. Noi epidemiologi siamo come quelli che fanno le previsioni del tempo, ma non abbiamo la foto di un un vortice da mostrare al mondo. Per fortuna, al contrario dei metereologi, dopo aver individuato l’uragano, possiamo attenuarne l’impatto”. Alessandro Vespignani, 55 anni. Figlio di Renzo Vespignani, uno dei più famosi pittori italiani del dopoguerra. Romano, fisico di formazione, una carriera internazionale a cavallo fra Europa e America, costruita – negli ultimi venti anni – tutta sulla caccia ai virus. Vespignani è atipico, nella sua formazione, e molto determinato nella sua analisi: “Da oggi 4,5 milioni di persone in più saranno sulle strade, bisogna evitare una seconda ondata: raggiungere questo obiettivo è possibile”.
Professor Vespignani, lei è un epidemiologo, ma non un virologo.
I virologi – come le spiegherò – possono essere dei luminari, ma talvolta sono le persone meno indicate per capire come si sviluppa una epidemia.
Addirittura. E lei?
Io non potrei dare nessun contributo a trovare un vaccino, ma sono in grado di dire come si muove il virus in una popolazione.
Lei è pro o contro il passaggio alla Fase 2 in Italia?
Non ho nulla in contrario, in linea di principio. Anzi, penso che sia necessario ritornare al lavoro. Ma per farlo servono le condizioni di base per non ricadere nell’epidemia.
Cosa serve, che cosa manca?
Prima di tutto un salto di mentalità. E poi le tre T. Se vuole le spiego perché.
Come è diventato epidemiologo?
Pensi: io di formazione primaria sono un fisico, che poi si è interessato all’informatica, che poi da questa base è passato a studiare le reti sociali.
Non sembra un percorso convenzionale, a dire il vero.
(Ride). Ah, certo, assolutamente no: il fatto è che alla fine degli anni Novanta ho iniziato ad occuparmi di virus informatici. E da lì sono passato ai virus biologici.
Ancora più singolare.
Capisco. Ma in realtà lo è molto meno di quanto non possa sembrare: il comportamento dei virus informatici, dal punto di vista schematico, e gli scambi infettivi tra le reti, allora seguivano dinamiche sovrapponibili a quelle biologiche.
Era il 2000, l’anno della Sars.
Esatto. La Sars è stato il battesimo di una intera generazione, e – nel piccolo – il mio.
Cosa accadde?
Mi fecero una proposta, quasi estemporanea, e io accettai senza sapere che sarebbe diventato il mestiere di una vita.
Chi fu?
Un collega francese, Valleron. Era rimasto stupito da questa corrispondenza tra modelli e mi disse: “Ma perché non applichi questi tuoi schemi informatici alla epidemiologia?”.
E quale fu il primo passo?
Incrociare l’analisi dei dati e i modelli matematici con la tracciabilità.
Mi faccia un esempio concreto.
L’emergenza era contenere una epidemia globale. Serviva capire – per esempio – chi c’era su un determinato volo, e sui voli in connessione, capire le frequenze, i flussi totali riaggregati, gli stop over e la digitalizzazione del traffico aereo.
Ed era così difficile?
Oh sì! Dal punto di vista dei big data, è come se parlassimo di preistoria. Parlo, cioè, del 1998, del 1999, del 2000. Se fa mente locale, scoprirà che tutti noi volavamo ancora con i biglietti cartacei!
Infatti mi sembra che accada da sempre.
In realtà la digitalizzazione integrale è iniziata dopo l’11 settembre, quando – dopo i virus – abbiamo iniziato ad inseguire i terroristi. Un altro virus, ma altrettanto pericoloso.
Lei si considera un “cervello in fuga”?
(Ride). Non è una espressione in cui mi riconosco, perché ci consegna una idea di necessità. Io ho scelto questo percorso perché era una opportunità, non una condanna.