Dentro i problemi del modello lombardo: medici di base difficili da trovare, Covid hotel in ritardo, cure domiciliari insufficienti. La riforma Maroni del 2015 mostra i suoi limiti. A più di nove mesi da quel 20 febbraio 2020 alle ore 20, giorno e ora del risultato del tampone positivo di Mattia Maestri, l’impressione è sempre la stessa: in Lombardia qualcosa sta andando storto. La prima ondata dell’epidemia Covid 19 — con 76 mila contagi accertati tra fine febbraio e aprile e quasi 14 mila decessi ufficiali, oltre 1.300 malati in Terapia intensiva e 10 mila ricoverati contemporaneamente — la travolge con uno tsunami che arriva all’improvviso. Come già denunciato, il sistema ospedaliero, dove pubblico e privato sono nel corso degli anni messi sullo stesso piano, va subito in crisi: mancano tamponi e dispositivi di protezione, fallisce il ruolo di sorveglianza dei contagi sul territorio. Le cronache quotidiane sono scandite dalla strage nelle case di riposo, mentre la mancata istituzione della Zona rossa ai primi di marzo in Val Seriana, dovuta a un rimpallo di responsabilità tra Roma e Milano, porta alle immagini indelebili delle bare che escono da Bergamo sui camion dell’esercito. Su quanto accade all’ospedale di Alzano è in corso un’inchiesta della Procura.
La discussione se la Regione guidata dal leghista Attilio Fontana e dall’assessore Giulio Gallera (Forza Italia) potesse reagire meglio, viste le condizioni date, è destinata a prolungarsi all’infinito. Impossibile dimenticare le famiglie delle vittime ancora in cerca di risposte.
Il nodo dell’assistenza sul territorio
Ora il tema è un altro. Non meno importante. Con la seconda ondata emerge che il modello di Sanità lombarda non funziona soprattutto per un motivo: l’assistenza sul territorio. È il problema che — al di là dei risultati più o meno importanti ottenibili durante un’emergenza ovunque difficile da gestire — fa sentire il cittadino abbandonato a se stesso, porta di nuovo gli ospedali sull’orlo dell’abisso, fa alzare la voce ai sindaci che non trovano ascoltate le loro richieste. Gli esempi si moltiplicano. La possibilità di conoscere l’esito del tampone da casa in tempi rapidi, consultando il proprio fascicolo sanitario, senza aspettare la telefonata del proprio medico di famiglia o la comunicazione delle autorità sanitarie, entrambi ingolfati, arriva solo il 22 ottobre. Fino ad allora più di un cittadino aspetta per giorni il risultato in un meccanismo perverso. Sindaci e Prefetture ricevono praticamente in tempo reale la lista dei propri residenti positivi, mentre i diretti interessati non sanno ancora nulla: i due canali di comunicazione non interagiscono tra loro.
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dall'articolo di Simona Ravizza per Corriere.it