La pubblicità di un noto panettone raccomanda “fate i buoni” nella più importante delle giornate della bontà, il Natale, cui seguono le feste buoniste dei papà e delle mamme, dei fidanzati, dei volontari, della donna, della fame, dell’infanzia. L’ideale sarebbe dunque un calendario della bontà lungo 365 giorni, almeno per rinnovare un impegno. Ma siccome non siamo santi, si potrebbe eleggere il 29 febbraio (non ce ne vogliano i nati in questo giorno) a giornata nazionale della cattiveria (solo ogni quattro anni, nel bisestile, per festeggiare l’anno del coronavirus) in cui dare libero sfogo a rabbia, insulti, calunnie, cinismo, razzismo, xenofobia e falsità. Tutto permesso, tranne la violenza, per ventiquattro ore (ma sì, anche di notte, abbondiamo, direbbe Totò), con amnistia finale e senza obbligo di scuse, smentite, correzioni di giudizi. Ci pensate? Poter dire ai quattro venti che Silvia Romano se l’è spassata per due anni con i terroristi somali, che la Bellanova è un’amica degli scafisti, che Gualtieri è il cameriere dalla Merkel, che Salvini è uscito dal laboratorio di Wuhan? Dopodiché si ricominci a parlare, giudicare, correggere, criticare in modo civile, possibilmente facendo parlare fatti, dati, riscontri, non solo slogan e pregiudizi, riservandosi libertà di sarcasmo, per sostenere che il professor Burioni merita il Nobel della medicina, che Di Maio ha un problema con il congiuntivo, Conte con i congiunti e Toninelli con Toninelli.
C’è bisogno di una giornata così.
Durante il lockdown, gli italiani hanno fatto a gara a sembrare più buoni, più disciplinati, più solidali e persino più obbedienti. Non se ne poteva più di selfie di condominio, pranzi con suocere, unità nazionale e rinnovato amore per l’Europa generosa. Finalmente, in coincidenza con la «fase due», è tornato a scorrere un quotidiano fiume di veleni e denigrazione. La giornata della cattiveria potrebbe avere la funzione di parafulmine, di valvola della pentola a pressione.
Nei tre mesi vissuti al chiuso è uscito all’aperto il meglio del nostro carattere, oggi che torniamo a respirare aria fresca, tracima l’ incanaglimento. Non generalizzato, per fortuna, ma di minoranze che proprio minoranze non sono. Tanto che il mondo politico, senza mettere in agenda il 29 febbraio, si è rimesso puntigliosamente a cavalcarle. Basta seguire un talk show e navigare in rete per osservare che il liberi tutti della cattiveria risuona con il ritorno della « normalità », dopo sacrifici, canti alle finestre, orgoglio buonista che ci aveva unità nel tricolore.
Lo spettacolo è deprimente. E non c’entra nulla con il diritto/dovere di critica, la dialettica maggioranza/opposizione, l’analisi puntuale dei media, le grida di dolore dei tanti che soffrono, le legittime istante di categorie economiche e sociali che non trovano risposte esaustive nei provvedimenti del governo. Ciò che deprime, oltre agli insulti, sono l’incapacità e la non volontà di valutare la complessità delle cose, la dimensione catastrofica del problema virus rispetto ai mezzi realmente a disposizione, la mancanza di confronto con altri Paesi, molti dei quali stanno molto peggio, la cancellazione della memoria e di riferimenti storici e culturali che aiuterebbero a comprendere meglio i fatti e a elaborare soluzioni condivise.
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dall'articolo di Massimo Nava per AffariItaliani.it