C’è tutto un mondo di cose che dopo il periodo più duro del Covid, non hanno più trovato il posto che occupavano prima, nella mia vita. Non so se è una questione anagrafica. I giovani hanno fame di futuro, i vecchi di presente, chi sta in mezzo oggi è in una specie di stallo messicano, non sa se riavrà la vita di prima, se c’è tempo per rimescolare le carte. Ci sono cose che sono cambiate a livello pratico. Ho meno voglia di comprare, di spendere in vestiti, di andare dove la gente va per vetrine. Non è che sia finita nel calderone retorico del “basta consumismo”, semplicemente ho perso interesse. È come se quei tre mesi in cui sono rimasta in casa avessero lasciato un’ impronta nelle abitudini. Non accendo un phon da un mese e mezzo, ho fatto due volte il colore da sola, replico spesso quelle ore tiepide all’aperto, sul balcone, per fare asciugare i capelli al primo accenno di primavera.
Non è che mi faccia crescere i peli sotto le ascelle o abbia smesso di specchiarmi, semplicemente mi basto un po’ di più. C’è poi l’aspetto della sensibilità. Non riesco ancora a elaborare profondamente quello che è accaduto, che sta accadendo. La distanza emotiva dalle cose è di qualche centimetro scarso, non posso ripercorrere alcuni passaggi del lockdown senza commuovermi, senza avvertire un disordine intimo, profondo, su cui non so intervenire. Penso a quando mi svegliavo e piangevo, svegliavo il mio fidanzato con questa angoscia di vivere perennemente nel presente, di non sapere interpretare gli eventi, di sentire il dolore delle persone. Di aprire la finestra e vedere la città in una specie di fermo immagine, di vedere la città cambiare tra una stagione e l’altra senza viverla, di vedere l’erba dove non c’era, tra le mattonelle del marciapiede sotto casa.
La natura non mi ha consolata durante il lockdown, mi ha spaventata. Un giorno – era ormai maggio – stavamo pranzando sul terrazzo e nel parco davanti casa c’era un gigantesco airone che passeggiava indisturbato. Lo guardavamo increduli. È un parco piccolo quello di fronte casa, nel cuore della città, tra una sopraelevata e un centro commerciale. Quell’airone non mi ha regalato la poesia che mi avrebbe dovuto regalare. Era ciò che sopravviveva nel mondo, mentre noi ci nascondevamo. Mi sembrava stonato, arrogante.
Oggi, quando scendo sotto casa e vedo quei luoghi che ho visto deserti per mesi ormai vivi e ripopolati, sento qualcosa che fa ancora male, come se la normalità fosse nel posto sbagliato. Poi c’è un’idea inedita di futuro. L’idea masticata di lasciare i luoghi in cui ho vissuto in questi anni, che non avevo mai avuto. L’idea di cercare una nuova dimensione, come quando cambi taglia e il guardaroba non ti entra più.
Non so se il posto in cui vivo è ancora della mia taglia. Non so se non lo riconosco più o semplicemente sia evocativo di quel che è accaduto e paghi una colpa non sua. C’è poi questo disagio perenne nello stare in mezzo alla gente con naturalezza. Non so più se sono troppo vicina alla signora che sta pagando l’insalata davanti a me, se devo mettere la mascherina per sedermi all’aperto, se devo dire a chi mi porge la mano che la mano ce la daremo un’altra volta, se quella via è troppo affollata, se ho le mani sporche e ripercorrere con la mente quello che ho toccato quando mi siedo a tavola per capire se devo andare a rilavarmi le mani che ho lavato 10 minuti fa.
È come se vivessi una vita non mia, la vita di qualcuno che vive in una dimensione surreale, in cui si galleggia nella paura di un qualcosa di incombente. Siamo condannati a fare i conti con la prossimità, continuamente, a rielaborare l’idea di spazio, ad allargare il diametro del vuoto intorno a noi.
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dall'articolo di Selvaggia Lucarelli per TPI.it