renzi italiamorta draghi mattarellaImpegnandosi in un vero e proprio capolavoro shakespeariano, dopo aver accoltellato Enrico Letta e Giuseppe Conte, Matteo Renzi potrebbe riuscire nell’impresa di mettere nei guai anche Mario Draghi. Di mettere a rischio, cioè, il suo nome se non addirittura “bruciarlo”, in uno scenario in cui trovare una nuova maggioranza è sempre più difficile. E in un equilibrio di governo in cui – dato il “no” del M5s – il padrone di casa diventa Matteo Salvini. “L’ultima cosa possibile”, spiegava questa mattina a Omnibus il sindaco di Pesaro Matteo Ricci, “è che il Pd si ritrovi a sostenere un governo di destra”. Ha aggiunto Andrea Orlando: “Non basta dire ‘è arrivato Draghi, Viva Draghi”. Il che spiega perché i numeri e i partiti che sosterranno il tentativo dell’ex presidente della Bce diventano un grande rischio per Draghi.

 
 

Il leader di Italia Viva, se così fosse, stabilirebbe uno strano e non invidiabile primato, come se fosse una sorta di serial killer specializzato nell’omicidio politico dei premier, l’ultimo dei quali è ancora nella culla. Non è un caso. Come certi pluri-condannati per un medesimo reato, per cui una sentenza in più o in meno non gli cambia nulla sul cumulo di pena, oggi Renzi si trova nella curiosa condizione per cui può continuare ad esercitarsi nella sua arte preferita.

Il tema è quello che poniamo da giorni. Secondo Nando Pagnoncelli, ieri da Floris, il 51 per cento degli italiani hanno peggiorato il loro giudizio sull’uomo di Rignano, e magari non era nemmeno un buon giudizio. Il punto però è un altro: Mario Draghi era un ottimo candidato al Quirinale, forse il migliore, una riserva della Repubblica che non può correre il rischio di essere bruciato con un governo che non raccolga il consenso di tutti.

Dopo aver ingannato Mattarella, e l’esplorazione di Mattarella (ricordate? “Non c’è nessuna pregiudiziale sul nome di Conte”), il leader di Italia Viva ha fatto quello che aveva programmato da tempo: far saltare il governo del centrosinistra con l’obiettivo di smembrare il M5s e di colpire il Pd. Dopo questo, ovviamente, era importante delegittimare Nicola Zingaretti, insediare un altro segretario, più malleabile, tornare alla base e diventare il gestore occulto del partito.

Il primo risultato che ha ottenuto – ancora una volta – è stato opposto a quello che immaginava: è stato così presuntuoso da non capire che l’unica mossa che poteva ricompattare il Movimento cinque stelle era il “no” ad un banchiere. E così sta avvenendo. Ma lo stesso posizionamento, a desta, lo sta prendendo Giorgia Meloni (geniale la formula “dialogo dall’opposizione”) che a sua volta rende difficile a Matteo Salvini qualsiasi sostegno pieno: questo vorrebbe dire regalare voti con la carriola a Fratelli d’Italia. Adesso, se dice sì, Salvini rischia di essere prosciugato dalla concorrenza di una “opposizione responsabile”. E arrivare secondo alle elezioni quando si voterà, il che, per le regole che la destra si è data, significherebbe perdere la leadership in favore della leadership di Fratelli d’Italia.

Ma soprattutto: è evidente che chi può essere il candidato di tutti, al Colle, non può essere proposto solo da qualcuno, a Palazzo Chigi. Quindi, spendendo il suo nome per la presidenza del Consiglio, dopo un’operazione di cecchinaggio politico, Renzi mette Draghi in una condizione oggettivamente difficile. Ed è per tutti questi motivi che il fronte di battaglia si sposta nel Pd: i nemici di Zingaretti useranno la crisi per attaccare la segreteria. È l’ultima conseguenza della mossa di Renzi.

 

Ma la posizione del segretario, di contro, è fortissima nella base che – quasi unanime – si è espressa sui social in ogni occasione in cui ha potuto. Gli elettori del Pd sanno che ogni volta che un tecnico è andato al governo con i voti del loro partito, quel prezzo è stato pagato da loro. Nel 1992-1993 la sinistra ha donato il sangue ed è stata poi “scippata” da Silvio Berlusconi e dal suo miracolo italiano. E poi è finita la prima Repubblica, quella fondata sul bipolarismo dei partiti di massa, Dc-Pci.

Nel 2011-2012, la sinistra ha “donato il sangue” una seconda volta, e poi è stata scippata da Salvini e dal “vaffa”. Dopodiché è finita la seconda Repubblica, quella fondata sul bipolarismo tra centrodestra (Cdl-Pdl) e centrosinistra (Ulivo-Unione). Nel 2019-2020 il Pd è diventato il partito architrave della ricostruzione, ha ancora una volta “donato il sangue”, e adesso rischia ancora una volta di essere scippata, da un progetto tecnico che azzera il bipolarismo giallorossi-sovranisti. Se questo scenario si realizza, come per gli altri casi, finirà necessariamente la seconda Repubblica, e il nuovo bipolarismo che il Pd di Zingaretti era faticosamente riuscito a costruire. Questa, oggi, è la posta in palio.

Articolo di Luca Telese  per TPI.it 

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