Peppino Caldarola, giornalista che manca molto, mi chiese tre anni fa di scrivergli una riflessione sulla Lega per la rivista Italianieuropei. Restio a rispondere a tali sollecitazioni, per Peppino, visto l’affetto che avevo per lui, feci un’eccezione. Pubblicò il mio articolo il 14 giugno 2018. Il titolo, “Dalla Lega Nord a Salvini”, riassumeva bene quell’analisi. Su Salvini. La campagna elettorale dura da anni. Sistematica. Quotidiana. Ha cambiato la natura della Lega delle origini senza pregiudicare quel consenso. A Coblenza, nel febbraio 2017, ha partecipato con Marine Le Pen e altri al vertice dei nazionalisti europei. Nazionalista e non populista come pigramente è stato definito da intellettuali e politici progressisti. Ha tolto il Nord dal simbolo per affermare il partito in tutto il Paese. Su Giorgetti. Un amico, un parlamentare capace, allergico alla politica-spettacolo e superficiale, uomo dalle solide radici popolari a partire dall’amatissimo papà, pescatore e supertifoso del Varese, come il figlio. Il successo di Salvini, dipenderà, sostenevo, dalla capacità del centrosinistra di affondare il coltello nella piaga di contraddizioni macroscopiche. Cultura del lavoro, del rischio, del risparmio, della piccola proprietà, dell’autonomia. Questo è il Nord. Da noi, si dice, che un lavoro, se non è fatto bene, non è un lavoro. Sino a quando la sinistra non assumerà fino in fondo questo valore nella regione più popolosa e produttiva, la Lombardia, sarà sempre minoranza sociale e culturale. Quindi, politica. Al netto del fastidio per le autocitazioni, siamo costretti a partire da lì per capire cosa stia succedendo oggi. E siamo ancora qua. E già. Il centrosinistra non ha saputo incidere sulle evidenti contraddizioni del partito “Salvini Premier”. Giorgetti ha ritenuto, probabilmente ritiene da anni, che quelle contraddizioni non potevano durare. Da decenni la finanza comanda, i tecnici eseguono, i politici vanno in TV. Riconoscerlo, per un esponente politico, è la forma più feroce, ma onesta, di autocritica.
Dal 2018 è cambiato il mondo. La pandemia ha già cambiato i rapporti geopolitici. Le speranze dell’Italia, delle sue nuove generazioni, dipendono molto dall’Europa. Da quegli Stati Uniti d’Europa sognati da un gigante visionario come Carlo Cattaneo.
Vaccini, transizione ecologica, trasformazioni economico-sociali, ricerca, politica estera, difesa e sicurezza, vanno affrontate nella dimensione europea. Il Pd, il centrosinistra, è collocato naturalmente lì. Per la Lega, in queste ore, siamo in presenza di una mossa politica. Spinta da Giorgetti e accettata da Salvini per convenienza o convinzione? Non è domanda da poco. Su questa domanda, posto che anche Salvini rischia molto, il presidente Draghi dovrebbe fornire agli italiani, non al Pd, una risposta convincente, chiedendo alla Lega di aderire a una famiglia europea liberale, popolare, veda lei, ma convintamente europeista.
Non è il caso di scomodare De Gasperi, Togliatti, Amendola, Parri. È vero, tuttavia, che siamo a un tornante decisivo per l’Italia. Milioni di persone, famiglie, imprese impaurite, possono trasformarsi in un fiume di rabbia dagli esiti imprevedibili. Prendiamo lezione dal tremendo biennio del diciannovismo.
La proposta di un congresso avanzata dalla minoranza interna del Pd, appare, in questo momento, finalizzata all’ennesimo riposizionamento trasformistico. Non si può cavalcare l’ostilità comprensibile di militanti ed elettori di fronte a un governo con la Lega e accettare a scatola chiusa ciò che proporrà Draghi. Delle due l’una.
Mi aspetto che Zingaretti, che ha salvato il Pd dalle macerie lasciate da chi l’ha preceduto, parli un linguaggio di verità al Paese. In questo senso accetti la sfida di fare un congresso se si occupi dell’Italia, di come è già cambiata e del suo futuro. La scelta di Renzi di affondare il governo Conte non è stata incomprensibile. Voleva distruggere il Pd e minare il progetto di un nuovo centrosinistra, con il protagonismo del M5S, di Leu e di altre forze europeiste radicate nella società italiana, alternativo alla destra.
Noi vogliamo salvare l’Italia, grazie al Next Generation Eu, con una stella polare: basta “lacrime e sangue”.
Un anno fa la scrittrice indiana Arundhati Roy scrisse: “la pandemia è un cancello tra un mondo e un altro. Possiamo attraversarlo trascinandoci dietro le carcasse del nostro odio, dei nostri pregiudizi, la nostra avidità, le nostre banche dati, le nostre vecchie idee, i nostri fiumi morti e i cieli fumosi. Oppure possiamo attraversarlo con un bagaglio più leggero, pronti a immaginare un mondo diverso. E lottare per averlo”.
Questa è la missione della sinistra. Combattere povertà, vecchie e nuove disuguaglianze, ingiustizie, non il benessere e il progresso. L’80% dei cittadini non ha fiducia nel Parlamento. Per i partiti la sfiducia è del 90%. Il Paese è in sofferenza e i debiti andranno restituiti. Affrontare questa sfida nel quadrilatero, pur prestigioso, dei palazzi romani, senza un corale impegno popolare, sarebbe una pericolosa illusione.
Anch’io penso, come Giorgetti, che Draghi sia una sorta di Ronaldo. Bene ha fatto il Presidente Mattarella a impegnare l’italiano più stimato nel mondo in una sfida difficilissima. La Juventus l’anno scorso, pur disponendo di Ronaldo, tuttavia, non riuscì a vincere la Champions League. Sono certo che Mario Draghi, tanto più da tifoso romanista, lo sappia benissimo.
Articolo del dal blog di HuffintonPost.it