«Mi si nota di più se dico «negro» o «zingaraccia»? Una domanda che il correttissimo Nanni Moretti non si farebbe mai, ma che, in una fase storico-sociale in cui sembra ci sia tolleranza zero su ogni espressione che offenda anche alla lontana tribù e «diversità», ridiventa di attualità. In un millennio in cui il politicamente corretto è diventato una dittatura (o addirittura un «catechismo», secondo alcuni), spetta al linguaggio il ruolo di ultima frontiera della provocazione. La vera differenza con il Novecento è tuttavia la rapidità con cui la condanna di espressioni «borderline» si alterna al loro sdoganamento, a seconda di mezzi, contesti e personaggi che se le permettono. Quelle sopra citate diventano allora - a seconda dell’andamento del mercato dell’insulto - volgarità sessiste e razziste oppure «citazioni colte».
Il borsino quotidiano del lessico pubblico e privato subisce impennate continue: ciò che oggi è offensivo domani potrebbe risultare ironico e le quotazioni del gergo oscillano, impazzite, tra simpatia e sdegno, pop e kitsch, rivendicazioni di appartenenza o fiaschi fallocratici.
Partiamo da una parola, «negro», sulla cui messa al bando ci si interrogava già nel 1989, come dimostra l’articolo di Panorama di quell’anno, che abbiamo riprodotto a pagina 66. Ha ancora più senso farlo oggi, a 400 anni di distanza dalla nascita ufficiale della schiavitù (era l’agosto del 1619 quando a Fort Monroe, Virginia, sbarcavano da una nave portoghese 33 africani di origine angolana scambiati con provviste) e in un momento in cui «sbarcare» in un porto occidentale per un africano ha ben altro significato: «Il grande mostro oggi è lo hate speech, che ha sdoganato i linguaggi estremi verso i sentimenti di un determinato gruppo» riflette Eugenio Capozzi, ordinario di Storia contemporanea a Napoli e autore di Politicamente corretto. Breve storia di un’ideologia (Marsilio).
Spiega: «I diritti ci appartengono solo se siamo categoria: se sei africano e lo hate speech ti chiama “negro”, oppure “indiano” invece di “nativo”, offende i sentimenti del gruppo. Ma se sei algerino o musulmano in Francia e dici, come ha fatto il rapper nero Nick Conrad in una canzone, “Impiccate i bianchi”, questo viene considerato una legittima reazione alla discriminazione e il rapper viene assolto dall’accusa di istigazione a delinquere. Se lo schiavismo è il peccato originale su cui è stata costruita la storia costituzionale americana, io afroamericano posso sputare sulla democrazia americana quanto voglio e dire “Odio i bianchi”: non è razzismo. È così che i diritti umani diventano una nozione vuota».
La legittimazione ex post è dietro l’angolo: se i versi trasgressivi e scorretti sono del provocatorio Kanye West, che sostiene Donald Trump e la parola «negro» vorrebbe proprio normalizzarla, si tratterebbe di razzismo allo stato puro. Diverso invece è quel che è accaduto da noi per Tommy Kuti, il rapper nigeriano trentenne con accento bresciano che si dichiara «Né bianco né nero ma afroitaliano» e che ha da poco portato in libreria Ci rido sopra. Crescere con la pelle nera nell’Italia di Salvini (Rizzoli). I versi «Sulla metro le vecchiette fanno sempre un passo indietro, tengon strette le borsette perché è arrivato il negro» fanno parte di Un rap per lo Ius Soli ed ecco che «negro» non solo si può dire ma diventa un manifesto.
Diverso è il caso se non sei rapper ma giornalista e ti scappa di pubblicare un articolo su Facebook che contenga la parola «negro», come è accaduto a Marcello Veneziani nel giugno 2018. Ora, a distanza di 14 mesi, l’algoritmo del social network ha bloccato la sua pagina ufficiale per tre giorni. La parola compariva nel titolo, «Il capo del Pd sarà negro» ma, specifica Veneziani, «nel testo non vi era alcun contenuto razzista». «Chi lo dice» e «perché lo dice» fanno dunque cambiare le regole del gioco.
Gli americani hanno un sistema per «classificare» le parole da censurare, che permette di non dirle, non scriverle e in teoria nemmeno pensarle: vi si fa riferimento con l’iniziale e il gioco è fatto. C’è la N-word, per indicare «nigger, «negro», e c’è la F-word, a cui possono corrispondere, a seconda del contesto, «fuck», scopare, o «faggot», «finocchio». Ma secondo il codice politically correct non basta purgare l’indicibile con l’abbreviazione: alle N-word, F-word o altri lemmi intollerabili deve toccare un destino di cancellazione totale, opere d’arte comprese. Facciamo un esempio, anzi due: dall’anno della sua pubblicazione, il 1960, Il buio oltre la siepe di Harper Lee è stato messo all’indice in molte biblioteche americane e lo è ancora oggi (nel 2018 risultava addirittura tra i primi dieci libri più banditi in scuole e università degli States) per via dell’uso della parola «negro». Stesso destino qualche anno fa per Huckleberry Finn di Mark Twain: solo che invece di bandire il romanzo, nella nuova edizione è stata cancellata la parola e via.
«Che ci si autocensuri o ci si contenga nella dimensione pubblica del linguaggio non lo reputo affatto cosa negativa, ma civile» commenta Marco Balzano, scrittore e insegnante milanese, premio Campiello 2015 e autore di Le parole sono importanti (Einaudi). «Che tu abbia un super-io molto attento nel dire “negro” in pubblico e magari faccia lo stesso per le parole legate all’omosessualità o alla parità di genere non si oppone alla libertà di espressione. L’unico ambito che deve restare in campo libero, però, è quello artistico. E vale per tutte le arti, per chi dipinge, scrive canzoni o scrive romanzi. Se faccio lo scrittore devo avere libertà di muovermi: posso avere necessità di dire “negro”, adottare il punto di vista di chi voglio e anche il lessico più urticante. L’artista può e deve poter essere scorretto. Il cittadino di oggi invece deve avere più etica del cittadino di ieri: oggi chi dice “negro”? La persona non “educata”: nel senso di ex duco, “portata fuori” da uno stato inferiore verso una condizione più umana».
Di fatto la censura del politicamente corretto ci ha condizionati al punto che non riusciremmo più a immaginare l’apparire in tv di un duetto come quello, scorrettissimo, di Tognazzi-Vianello a Un due tre (ed era il 1959) o l’uscita nelle sale di un film come Amici miei, in cui i cinquantenni fiorentini Mascetti, Melandri, Perozzi, Necchi e Sassaroli se la prendevano allegramente con mogli, amanti, bambini, adolescenti, malati, animali e ogni altra categoria protetta, minoranza, genere o orientamento. Scatenerebbero risse verbali infinite dai social ai talk show, urtando suscettibilità a catena senza ottenerne in cambio neanche una sincera risata. Sarà per questo che, se bisogna offendere ad esempio gli anziani, si va giù pesanti e viscerali, imperdonabili sin dal principio: lo fece il cantautore Giancane qualche anno fa con il brano Vecchi di merda, ripreso l’anno scorso - nel titolo e nello spirito - dalla graphic novel Quattro vecchi di merda (Fandango) di Taddei-Angelini, distopia su quattro ultrasettantenni che nel 2029 rimettono in piedi una band punk, ovviamente molto, molto scorretta.
«Condannare la parola “negro” sa a volte di vezzo, visto che la fonte è la stessa di “nero”, ovvero “niger” e la differenza sta in una “g”: quindi son certo che prima o poi verrà “riabilitata. Perché a volte ciò che sembra scorretto è solo vintage, basta vedere il caso della “Patata bollente” usata da Feltri per la Raggi» chiosa Vittorio Sgarbi. «La parola “gay” per esempio ha “lavato” tutto il lessico riferito agli omosessuali, per cui oggi chi dice “finocchio” viene segnato a dito. Ma in realtà si tratta solo di una parola “scaduta”, demodé, che un tempo veniva tollerata anche dagli stessi gay. Salvini infatti, con il suo arcaismo psicologico, continua a usarla».
Volendo seguire la teoria di «rimozione da consumo eccessivo» legata ad alcune parole-tabù, si potrebbe provare a fare uno degli ultimi test dell’estate: qual è la vostra parola vietata, oggi, quella che non usereste mai in pubblico per paura di essere «bannati»? Per Capozzi: «Diversità. Mentre sociologia e politologia sottolineano come le società sono danneggiate da un tasso troppo alto di differenze da tenere insieme, guai a contrastare il luogo comune secondo cui le differenze - sessuali, culturali, etc. - sono belle...». Per Balzano: «Cancro. L’ultima barriera linguistica, il tabù equivalente a negro, riguarda morte e malattie». Per Sgarbi: «La parola meno usabile oggi? Normale. Nessuno capisce più che cosa vuol dire: è diventata inquietante, oscena, pericolosa».
Articolo di Stefania Vitulli per Panorama.it
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